Il 20 dicembre 1968 moriva John Steinbeck, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1962.
John Steinbeck nacque il 27 febbraio 1902 nella cittadina rurale di Salinas, in California. Il padre, John Ernst Steinbeck Sr. (nato Grossteinbeck), era il tesoriere della contea di Monterey, mentre la madre, Olive Hamilton Steinbeck, di origine irlandese, donna dal carattere molto determinato, era insegnante. John ebbe un’infanzia serena, insieme alle due sorelle maggiori Esther (1892) ed Elizabeth (1894) e alla sorella minore Mary (1905), crebbe sviluppando un legame affettivo molto forte con l’ambiente della valle di Salinas e della vicina costa del Pacifico dove la famiglia soleva trascorrere i fine settimana estivi.
A 14 anni John, ragazzino timido e schivo, decise che avrebbe fatto lo scrittore e trascorse parte dell’adolescenza scrivendo racconti e poesie.
Nel 1919 iniziò gli studi presso la Stanford University e frequentò corsi di letteratura inglese e scrittura creativa. Dal 1919 al 1925, Steinbeck interruppe spesso gli studi per svolgere lavori occasionali e temporanei venendo a contatto con un ambiente che influenzerà notevolmente i suoi romanzi. Costretto ad abbandonare definitivamente l’università alle soglie della laurea, cercò di entrare nel mondo letterario pubblicando, sulle riviste e sui giornali disposti ad accoglierlo, articoli, racconti e poesie e nel 1925 tentò di trasferirsi a New York che era in quel periodo il centro della vita intellettuale statunitense, ma l’anno successivo dovette ritornare in California. Steinbeck racconterà questa sua esperienza, con maturità e auto-ironia in Come si diventa newyorkesi.
Possiamo dire, senza essere smentiti, che Steinbeck è uno dei migliori autori di quel genere che una chiamavano “il romanzo americano”. Ne fu interprete partendo dal basso, raccontò, in sostanza, storie di donne e di uomini della profonda provincia americana, dove non esistevano regole e ognuno si arrangiava come poteva. E come poteva raccontare meglio la grande depressione americana del 1939 in “Furore”, romanzo del 1939 in cui racconta la Grande Depressione attraverso l’epopea di una famiglia che dall’Oklahoma parte verso la California in cerca di lavoro. Una storia densa, articolata, e potente, che racchiude in seicento pagine lo spirito di un paese. La potenza di Furore la vediamo già dall’incipt “Sulle terre rosse e su una parte delle terre grigie dell’Oklahoma le ultime pioggie furono leggere, e non lasciarono traccia sui terreni arati. Le lame passarono e ripassarono spianando i solchi piovani. Le ultime pioggie fecero rialzare in fretta il mais e sparsero colonie di gramigna e ortiche ai lati delle strade, tanto che le terre grigie e le terre rosso-scure cominciarono a sparire sotto una coltre verde.
Un presagio di fame e disperazione che Steinbeck racconterà con cruda realtà, senza nascondere nulla, cosi come il romanzo americano vuole.
Furore è anche un romanzo di riscatto sociale, di una forma inconsapevole di comunismo americano, seppur avversato come sappiamo, e questa realtà la troviamo in questi passi:
“Gli uomini restavano in silenzio e si muovevano appena. Poi dalle case uscirono le donne e si misero accanto ai loro uomini — per capire se stavolta gli uomini sarebbero crollati. Le donne studiavano di nascosto la faccia degli uomini, perché il mais si poteva anche perdere, purché si salvasse qualcos’altro. I bambini indugiavano lì accanto, disegnando nella polvere con le dita dei piedi scalzi, e i bambini sondavano in silenzio gli uomini e le donne per capire se sarebbero crollati.
Già, gridavano i mezzadri, ma questa terra è nostra. L’abbiamo misurata e l’abbiamo dissodata. Su questa terra siamo nati, su questa terra ci siamo fatti uccidere, su questa terra siamo morti. Anche se non serve più a niente, è ancora nostra. Ecco cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci. È questo a darcene il possesso, non un pezzo di carta con sopra dei numeri.
In Italia, la vecchia traduzione di Furore, fortemente condizionata dalla censura fascista (il romanzo esce nel 1940 per Bompiani), è stata sostituita nel 2013 da quella più aderente all’originale di Sergio Claudio Perroni.
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