Una guerra che ha ben poco di illustre è stata da qualche tempo dichiarata e portata avanti in TV, carta stampata e canali virtuali contro i nostri paesi, contro i paesi italiani, disseminati a migliaia lungo lo stivale. I paesi della nostra storia, del nostro mondo, dei nostri campanili, che si rimandano i rintocchi di collina in collina anche a suggellare antipatie e rivalità ataviche. I paesi dei proverbi: quelli di “Moglie e buoi dei paesi tuoi”, per capirci, o di “Paese che vai usanza che trovi”, o di “Ogni mondo è paese” e via dicendo. I paesi nel bene e nel male. Se si vuole, anche quelli le cui tradizioni hanno ispirato l’oscurantismo fascista dello strapaese letterario volto a combattere ogni forma di cosmopolitismo o esterofilia in nome dello schiettamente paesano. I paesi che più semplicemente hanno ispirato canzoni in gran voga, che negli anni Sessanta del secolo scorso ne hanno descritto e accompagnato il declino, lo spopolamento, con l’inevitabile rimpianto nostalgico. “Paese dove si nasce / Sei come il primo amore / Non ti si può scordare”, cantava Nicola di Bari e, insieme a lui, migliaia e migliaia di ragazzi meridionali, che partivano per il Nord Italia o il Nord Europa. E se l’orizzonte meridionale può apparire limitato, si pensi a Jimmy Fontana e all’inno fatto proprio da generazioni di italiani. Di paesani d’Italia, per dir meglio, categoria alla quale la gran parte di noi appartiene. Paesani, di certo non borghigiani, e meno che meno borghesi. Nel Molise, più che altrove, dal momento che persino le due città capoluogo, altro non appaiono e non sono che due paesoni, indolenti come si conviene alla categoria. Cosicché anche gli isernini e i campobassani, al pari degli altri corregionali, hanno potuto riconoscere, riconoscersi e cantare in prima persona: “Paese mio, che stai sulla collina / disteso come un vecchio addormentato. / La noia, l’abbandono / son la tua malattia. / Paese mio, ti lascio e vado via”.
Da qualche tempo, si diceva, di paesi non si sente più parlare. Si sente parlare di borghi, in obbedienza a una sinonimia, in verità tutta da dimostrare, e a una fantomatica sentenza universalmente osservata che sembra aver stabilito la supremazia dei secondi sui primi. Il borgo medievale, in effetti, indicava il centro urbano di non infime dimensioni, munito di mura, al cui interno venivano a svolgersi attività commerciali, di officina e finanziarie, in contrapposizione alla periferia e al territorio circostante dediti all’agricoltura. Ben pochi centri molisani, per non dire nessuno, possono vantare queste caratteristiche e rientrare nella qualifica di borgo. E che fa! Evidentemente il termine è ritenuto più nobile ed elegante di paese e dotato di una sonorità meglio adeguata per la promozione turistica e di immagine del proprio territorio. Così, da un po’ di tempo in qua si sente parlare solo di borghi, per giunta salutati inevitabilmente con gli epiteti di pittoreschi (e ci possono stare) e di ridenti, ad onta del dramma in apparenza irreversibile dello spopolamento che suggerirebbe semmai di dirli piangenti.
Se è improprio chiamare borgo un nostro paese, addirittura sbagliato è identificarlo con il nucleo originario, fortificato. Con borgo, secondo l’accezione molisana e dell’Italia meridionale in genere, era indicato esattamente l’opposto: ovvero quelle case, costruite in tempi più vicini a noi, appena fuori delle originarie mura cittadine, lungo la strada di accesso al paese, che in tal modo veniva ad ampliarsi. Al riguardo si veda la toponomastica dei nostri abitati, dove le strade intitolate Via Borgo, sono posizionate sempre fuori di una porta di accesso al paese. Si pensi in particolare a Campobasso, dove a inizio Ottocento fu costruito il famoso borgo murattiano, che per l’appunto veniva a costituire l’ampliamento urbano progettato e realizzato nel piano della Campobasso medievale, rimasta arroccata lungo la pendice del Monti. Il termine borgo, quindi, lungi dal designare il nucleo originario fortificato come si pretende di credere o di far credere, designava al contrario l’appendice moderna dell’abitato medievale, costruita fuori delle mura, lungo la direttrice di accesso alla porta cittadina. Non il centro, quindi, ma la periferia. Si pensi a Roma, tanto per continuare a capirci, alle sue borgate e ai borgatari.
Si obietterà che la grande tradizione letteraria italiana non ha disdegnato di usare borgo nell’accezione propria di paese. E il riferimento principe non può non essere il natio borgo selvaggio leopardiano, nonostante il marchio a fuoco dell’epiteto, cui tenne dietro il Carducci con le vie del borgo, e l’aspro odor dei vini che rallegrava gli animi. Obiezione certamente giusta se riferita come nei due casi in parola alle Marche e alla Toscana e all’Italia Centrale in genere, dove in molti casi si può correttamente parlare di borghi. Ma fuori da quei confini no.
La riprova arriva da due innamorati dei nostri paesi, che proprio dai paesi hanno tratto forza e vitalità per farsi largo nel mondo della divulgazione televisiva e culturale, e che la scorsa estate hanno onorato la comunità di San Giovanni in Galdo, rimbalzata in cronaca nazionale e oltre per l’iniziativa di invitare quaranta coppie di turisti a soggiornare gratis negli alloggi ricavati nel cuore antico del paese, il Morrutto.
Il molisano Domenico Iannacone da Torella del Sannio e il campano Franco Arminio da Bisaccia si sono avvicendati nelle due serate sangiovannare a discutere dei problemi e delle prospettive dei nostri paesi. Il giornalista e il poeta, che non per nulla ama definirsi paesologo, dopo che ne avevano parlato in due puntate del programma di successo di Iannacone Che ci faccio qui?, ambientate nei loro paesi di nascita, hanno continuato a discuterne per oltre quattro ore con un uditorio appassionato e attento. Ebbene, presentando e commentando documentari, proposte, suggestioni, lamentele, apprezzamenti, versi, canzoni, hanno fatto risuonare i termini di paese e paesi centinaia di volte. Quelli di borgo e borghi, mai.
Qualcosa pure significherà questo dire pane al pane e vino al vino e paese al paese. E se paese va bene a Domenico Iannacone e a Franco Armino, dopo che è andato bene da sempre alla storia, alla lingua, alla realtà sociale e alla tradizione nostra, allora perché in Tv, carta stampata e canali virtuali continua a essere sacrificato per far posto a borgo, termine che nel migliore dei casi è un pessimo sinonimo, nel peggiore un errore vero e proprio? Dispiace, soprattutto, sentire immancabilmente parlare di borgo e borghi i nostri amministratori territoriali che vorrebbero promuovere nel circuito turistico nazionale e internazionale i nostri paesi, la cui sorte dicono di avere tanto a cuore. Se sono sinceri, e non facciamo fatica a crederlo, perché non cominciano a salvaguardarne il nome, chiamandoli paesi, nel rispetto della loro peculiare identità di paesi?
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