La notizia in termini asciutti è questa: una prestigiosa rivista letteraria francese ha pubblicato un racconto di Francesco Jovine. È una notizia che vale la pena di rimarcare, nell’imminenza del settantesimo anniversario della morte prematura dello scrittore molisano, tra i più importanti e affascinanti del Novecento italiano, venuto a mancare a Roma il 30 aprile 1950 non ancora quarantottenne.
Vale la pena di rimarcarla, perché arriva dopo lustri di scarsa attenzione italiana nei confronti dell’autore di Signora Ava e Le terre del Sacramento, al quale, una volta morto, erano state spalancate le porte del pantheon delle patrie lettere. Vi sarebbe dovuto rimanere per sempre, invece, a settant’anni dalla morte, si fa sempre più acuto il sospetto che ne sia stato estromesso come autore ormai dimenticato.
È vero che c’è stata una fiammata di rinnovato interesse all’inizio del decennio appena trascorso, quando Donzelli ha ripubblicato i due capolavori in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia: Signora Ava nel 2010, con prefazione di Goffredo Fofi e postfazione del nostro Francesco D’Episcopo e, due anni dopo, con prefazione dello stesso D’Episcopo, Le terre del Sacramento. Tuttavia, le due epopee di possidenti agrari, contadini e briganti molisani, legata la prima alla fine dei Borboni e all’arrivo dei piemontesi, la seconda alla occupazione della terre da parte dei contadini poi massacrati dai fascisti, per quanto in connessione con due snodi nevralgici della storia nazionale, sembrano non attrarre più di tanto la curiosità del lettore di oggi.
Lettore che, peraltro, immaginiamo non troppo sensibile al fascino delle figure eroiche dei due protagonisti, il servo Pietro Veleno spinto dagli eventi a farsi brigante e Luca Marano, lo studente fuoricorso e prete mancato, che guiderà i coloni ad occupare le terre in precedenza da loro abbandonate, giudicandone maledetta la coltivazione, per essere state sottratte alla Chiesa. E lo immaginiamo poco coinvolto anche quando Pietro e Luca si fanno tragicamente carico delle passioni e dei drammi delle rispettive comunità contadine in un contesto meridionale, che per quanto affrancato dai facili e risaputi cliché è tuttavia relegato in un mondo lontano dal mondo d’oggi, assai più lontano dei decenni trascorsi.
E questo non per imperizia di Jovine, di cui nessuno potrà mai mettere in discussione la scrittura di qualità, ma per una sorta di riluttanza del lettore odierno a confrontarsi con temi e personaggi di più ampio e corale respiro.
Fatto sta che persino tra i corregionali, la pregevole ristampa del Viaggio in Molise (Iannone 2017), presentata da autori come Pier Paolo Giannubilo, Antonella Presutti e Sebastiano Martelli, sia stata accolta con relativo interesse, per usare un eufemismo. Secondo Martelli, curatore del volume e autore dell’ottima postfazione, la causa potrebbe ricercarsi nella mancanza di un archivio Jovine, alla quale ricondurre la sterilità degli studiosi, impossibilitati a confrontarsi con il materiale relativo alla formazione e alla produzione dello scrittore.
Ben venga allora la novella tradotta e pubblicata in Francia, dove Jovine è conosciuto fin dal 1953, quando Les Terres du Saint-Sacrement fu pubblicato da Hachette, nella collana dei migliori romanzi stranieri. E dove quarant’anni dopo sono apparsi Signora Ava, che ha mantenuto il titolo originale (1992), e i racconti de L’impero in provincia con il titolo Maison des trois veuves (1994), tradotti da Soula Aghion e pubblicati entrambi a Parigi presso le edizioni Fayard, il cui catalogo accoglie opere di Vitaliano Brancati, Andrea Camilleri, Dario Fo, Leonardo Sciascia, Domenico Starnone, Sebastiano Vassalli…
La novella Sogni d’oro di Michele, tratta dalla raccolta Ladri di Galline (1940), è stata pubblicata dunque sul numero settembre-ottobre 2019 della rivista letteraria francese «Europe», che esce mensilmente e si avvia a celebrare il secolo di attività. Fondata nel 1923 da Romain Rolland, premio Nobel per la letteratura nel 1915, la rivista ha avuto tra i collaboratori Louis Aragon, Rabindranath Tagore e Louis-Ferdinand Céline, giusto per limitarci ai tre esempi di rito.
Si sono incaricati della traduzione Coralie Gourdange e Piotr Verrezen, studenti della Scuola per traduttori e interpreti Isti-Cooremans della libera Università di Bruxelles, sotto la guida del loro professore d’italiano Jean-Pierre Pisetta.
Nato in Belgio nel 1956, figlio di emigrati trentini, Pisetta è un appassionato di Jovine e del Molise, e per il momento resta da sciogliere il dubbio se la simpatia per il Molise discenda dalla passione per Jovine o viceversa. Certo è che di un suo soggiorno ad Agnone nel 2017 ha lasciato un articolo che è un atto di amore nei confronti di quel “luogo di alta cultura… delle persone che [l’] hanno guidato e [l’] hanno aiutato ad apprezzare le sue case, la sua storia, i suoi artigiani, i suoi prodotti alimentari, le sue caratteristiche ambientali…”.
Anche in francese Les beaux reves de Michele rende giustizia alla potenza narrativa di Francesco Jovine. I lettori d’oltralpe vi ritroveranno “il più vero e sicuro Jovine”, lo scrittore che eccelle “nella rappresentazione più diretta e sicura di momenti di vita paesana, di ferme figure di dramma e perfin di tragedia, in certe nitide scene che si muovono tra paese e campagna, tra esterni di una natura corposamente presente con la sua benevolenza e malevolenza verso gli uomini, e interni di animi disposti ad una naturale malinconia che è come un retaggio dell’infanzia”.
Sono le parole di un critico di vaglia, Riccardo Scrivano, che recensendo la corposa ristampa Einaudi dei Racconti (1960), segnalava tra gli esiti migliori proprio “Sogni d’oro di Michele (anche se un po’ troppo ricalcato su un’eredità di toni verghiani), con l’intensa rappresentazione dello stupore e della malinconia del ragazzo”.
Il racconto ha per teatro un’autentica bolgia dell’inferno in terra, una cava di pietra arroventata dal sole torrido e accecante di luglio dove, sotto gli occhi assonati del figlio dei padrone, sudano e patiscono i due dannati della vicenda, due spaccapietre. Il primo, muto e inteso al lavoro, poco più di un automa, tanto che allo sguardo meravigliato del ragazzo “il semblait avoir un ressort à déclic sur les hanches…” (“pareva che sui fianchi avesse una molla a scatto tanto era preciso ed energico il movimento del busto quando alzava la pesante mazza sul blocco della pietra”). Il secondo, invece, “musculeux, grand et maigre, avec deux yeux opaques dans ses orbites osseuses était plus violent et désordonné”. Era più violento e disordinato dell’altro, e sfinito dal sudore, dalla fatica, dalla fame e dalla sete. Era oppresso soprattutto dal rancore e dal risentimento verso chi lo costringeva a penare in quell’inferno. Quel giorno tutto il fiele del suo livore e delle sue maligne allusioni, tutto il suo “odio animale” lo riversò sul ragazzo, Michele, che occasionalmente sostituiva la donna pagata per portar loro da bere.
Schiacciato dal peso delle umilianti insinuazioni dell’uomo, Michele non sa reagire, “si sente venire su dal ventre un terrore irresistibile”. Lungo il tragitto per andare ad attingere l’acqua alla fonte, cede al caldo e alla stanchezza. Sogna di vendicarsi. Non sono sogni d’oro i suoi, ma tragici sogni di morte. E fatalmente si avverano. In tutta la banalità del male e della tragedia. Si avverano all’improvviso, non c’è tempo nemmeno per rendersene conto, perché con la tragedia irrompe in scena anche uno sbalordimento metafisico, reso alla perfezione dallo scrittore e dai traduttori francesi. Alcuni contadini dall’alto della stradina che sovrasta la cava, cominciano a prendere a sassate gli spaccapietre, rei di avere insultato una giovane transitata poco tempo prima. Quelli in basso cercavano di parlare, scansando i colpi, “mais ceux d’en haut se tordaient de rire en les voyant danser ains et leur fureur d’intensifiait; ils arreterent seulement quand ils les virent s’unfuir”.
I contadini “ridevano a crepapelle vedendoli ballare così e raddoppiavano la furia: smisero solo quando li videro fuggire”. Con le risate a crepapelle dei contadini, ritratti in alto, in secondo piano, ignari della tragedia, l’arte di Jovine mette a segno un colpo magistrale. Un dettaglio indimenticabile di un racconto indimenticabile.
Nel suo traporto per Francesco Jovine e il Molise, Jean-Pierre Pisetta non si è limitato a sovraintendere alla traduzione di Sogni d’oro di Michele, né in precedenza, nell’estate del 2017, a visitare, restandone ammaliato, Agnone e le altre località toccate dallo scrittore molisano nel suo reportage del viaggio dei primi anni Quaranta del secolo scorso. Pisetta ha tradotto in francese il Viaggio in Molise, che speriamo di vedere presto pubblicato, in Belgio o in Francia o altrove. L’importante è che il volume riesca a tenere vivo l’interesse transalpino per Francesco Jovine, e chissà che tale interesse non possa irradiarsi anche da noi.
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