È arrivato quattro anni dopo, con una canzone. Si chiama Murder Most Foul, l’assassinio più infame. È il discorso scritto da Bob Dylanper il Nobel del 2016, quello vero. L’abbiamo atteso a lungo, come si aspetta una canzone nuova dentro un museo vuoto, quello delle parole perdute, ed è arrivato. Novembre 1963, qualcuno spara a Jack. Dallas, Texas, 22 novembre 1963, da una collinetta erbosa qualcuno spara, è una frazione di secondo, un colpo spacca il cranio di John Kennedy. Il cervello del Presidente degli Stati Uniti salta in aria, macchia di materia e sangue il vestito rosa antico di Jacqueline. È un attimo e si fa buio, una cataratta gigantesca scende sul mondo, è l’epitaffio per i sogni di una generazione. Kennedy chiude gli occhi, Dylan l’aveva già detto, i tempi sarebbero cambiati, ma non era quella la profezia giusta. Kennedy piega la testa all’indietro davanti alla telecamera di Abraham Zapruder, un sarto con una telecamera in mano che filma tutto. Kennedy piega la testa come un passerotto colpito a morte e le immagini di quell’uomo che muore fanno il giro del mondo. Quella di Neil Armstrong che scende dal Lem e posa un piede sulla Luna e quella di Kennedy che piega all’indietro la testa, col labbro sigillato e i capelli nel vento, sono queste le immagini che tengono dentro tutti gli anni sessanta. Kennedy muore, Armstrong realizza quella promessa che proprio Jack fece all’alba di quel decennio. Andremo sulla Luna disse, ma lui non lo vide mai. A Dallas la sua vita incrocia la strada dei cipressi. Finisce a novembre. Goodbye Jack, finisce così, finisce male, con l’assassinio più infame della storia. Quell’immagine è rimasta senza luce, come un albero secco in mezzo a un campo di neve, è rimasta così, buia, per più di cinquant’anni. Poi una mattina di marzo, nell’anno orribile del 2020, è arrivato Dylan, col suo vero discorso per il Nobel, lo ha dedicato a te e così ha riacceso la luce.
Murder Most Foul racconta quel giorno, racconta le canzoni, i volti, le immagini di quel tempo. Racconta il tempo venuto prima e quello venuto dopo. Come fosse un film col montaggio giusto e la trama sbagliata, Dylan cuce i fotogrammi: i Beatles, Woodstock, Altamont, Elm Street, Dealey Plaza, Oswald, Ruby, Etta James, John Lee Hooker, Marilyn Monroe, Oscar Peterson, Dickey Betts, Glenn Frey e Don Henley, Stan Getz, Art Pepper, Thelonious Monk, Charlie Parker, Buster Keaton, Harold Lloyd, Stevie Nicks, Nat King Cole, Lady Macbeth. Una galleria di immagini che scorrono e si perdono all’infinito, una nuvola di gente che tiene la mano a Kennedy, che prova a fermargli il batticuore mentre il suo volto sprofonda dietro il disco d’oro del sole. Play me a song, play me ‘Only the Good Die Young’ : è Dylan che canta, che invoca una canzone, quella che dice che sono i migliori a morire giovani; è Dylan che canta ma la suggestione e grande e sembra di udire da lontano anche un’altra voce, un’altra canzone, un’altra ballata di “scheletri americani”, “A Ballad of American Skeletons”, come l’avrebbe chiamata Allen Ginsberg. Sembra di sentire un’altra voce, viene dal cimitero di Lowell, in Massachussets, dove resta in pace Jack Kerouac: “Nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza”. Kennedy, come Kerouac, non divenne mai vecchio: only the good die young, solo i migliori muoiono giovani, dice la canzone. Ma non è vero, non è sempre vero, a volte qualcuno resta. Dylan, ad esempio. Oggi canta con la voce bassa, la sua è una meravigliosa ballata, forse l’ultima, sicuramente una delle più belle di una vita intera; oggi canta con la voce bassa ma un tempo c’ha gridato che da qualche parte, in qualche posto, c’è un riparo dalla tempesta. La sua canzone arrivata in una livida mattina di fine marzo, col mondo in fiamme, e prova a fare questo, anche questo, a darci un riparo dalla tempesta. “May God be with you”, che Dio sia con voi. Con queste parole, mentre in Italia faceva giorno e in America era quasi mezzanotte, Dylan c’ha lasciato la sua canzone. Dylan si è girato per l’ultima volta verso il suo tempo, verso i suoi anni che sono stati anche i nostri anni e il nostro tempo. Insieme a lui ci siamo girati anche noi e ci siamo guardati per l’ultima volta.
Scrivi un commento