Senza, voler scimmiottare nessuno, la domanda sorge spontanea. Come parlano in televisione?
È vero che nei decenni passati Aldo Biscardi e Tonino Di Pietro, nostri famosi e ultrapopolari corregionali, erano sbeffeggiati dai critici, dai colleghi e dal pubblico per i loro accenti dialettali, che nel caso di Di Pietro erano acuiti anche da simpatici strafalcioni. Ma non si capisce perché ai giorni nostri, in nome di una sorta di nemesi storica, le orecchie dei concittadini e corregionali di Biscardi e Di Pietro debbano subire le stonature di giornalisti o conduttori televisivi dalla forte inflessione dialettale che, per esempio, li porta a pronunciare aperte tutte (o quasi tutte) le o e le e toniche.
Nessuna esagerazione. Parlare di stonature è giustificato dal finissimo orecchio dei molisani, specie di quelli anziani, nati e sparpagliati per i centotrentasei paesi della regione, ognuno dei quali vanta, o vantava, a volte anche nei quartieri o nei vicinati, dialetti o sottodialetti diversi e fortemente divaricati l’uno dall’altro.
Si pensi per esempio a San Mercurio, il patrono di Toro, il cui nome è storpiato dalle popolazioni limitrofe in Santo Mercorio, in ossequio alle intenzioni denigratorie ma anche all’oggettiva incapacità a rendere la pronuncia del nome del santo così come lo pronunciano i toresi, con la u di Mercurio fortemente turbata, a mezza strada tra una e una u: Mercheurie.
Si pensi all’aneddoto che ha per protagonista il cane di Boiano o, se si vuole, il cane di Campobasso, accomunati l’uno e l’altro da una parlata cittadina gagliardamente sonora. Proprio per colpa di questa loro peculiarità si fanno fregare l’osso dall’arcigno cane di Isernia, il quale, al contrario, parla a denti stretti, quasi ringhiando (Sò de Sernia!), e può continuare benissimo a parlare, senza per questo mollare quell’osso, che i suoi boccaloni e poco accorti antagonisti si erano fatti cadere di bocca in precedenza.
Si pensi, infine, al celeberrimo Paga ca scì di Agnone di ciresiana memoria: al furbo che voleva evitare di pagare il pedaggio imposto dal padrone del ponticello di legno a quanti se ne servissero per passare il fiume. A niente gli valse “parlare in sottile”, presentandosi con il classico “mi so de Milano”, nel tentativo di spacciarsi per forestiero e come tale pretendere l’esenzione. Tradito dall’innata cadenza agnonese, fu costretto a pagare il dovuto, in obbedienza al motto divenuto proverbiale.
E sì. Giacché era capillarmente diffusa l’usanza di sbeffeggiarsi tra popolazioni finitime per le inflessioni dialettali che storpiavano i nomi dei paesi, delle persone, degli animali, possono essere presi per sfottò veri e propri, sia pure involontari, anche le pronunce scordate di Portocannòne, Montecilfòne, Guglionèsi, Matèse, dell’Agnonèse, la Vastèse, dei nostri amministratòri della regiòne, e via allargando le accentate, così come si sente echeggiare in TV.
Detto questo, il rilievo non può essere circoscritto alla onomastica e alla toponomastica locale. Tanto meno può essere liquidato come questione di lana caprina. Fatti salvi i lapsus sempre in agguato, nessuno scrittore o giornalista della carta stampata può permettersi di scrivere la è del verbo essere, senza l’accento, e ho, hai, ha e hanno, senza l’acca prescritta per il verbo avere. Tanto meno scrivere l’articolo un con l’apostrofo. Perché invece a professionisti delle parole al microfono dovrebbe essere concesso di pronunciarle in maniera scorretta?
Non occorre certo ricordare a chi legge che, a dispetto delle apparenze, sono sette, non cinque, le vocali in uso nella nostra lingua, essendo per l’appunto doppia la possibilità di pronuncia, aperta o chiusa, della e e della o. Per capirci meglio, cinque lettere, sette suoni. Giusto, pertanto, rivendicare il diritto dei telespettatori a una informazione in lingua italiana corretta, con la messa al bando delle ripetute stecche di professionisti, che pronunciano in modo errato le vocali in questione. Tanto più che la dizione corretta può essere assicurata grazie a un corso accelerato di dizione di base e all’aiuto di un buon dizionario (ce ne sono di ottimi anche on line). Intervento – detto di sfuggita – da estendere possibilmente ai giornalisti e conduttori di canali nazionali dove, seppure non con pari sistematicità, vengono comunque indirizzate analoghe offese alla fonetica nazionale in uso.
In considerazione della preminenza culturale e di prestigio dei mezzi di informazione e di intrattenimento televisivi, l’intervento a tutela della lingua italiana si renderebbe necessario anche al fine di evitare che i telespettatori possano essere indotti a scambiare per giuste le dizioni sbagliate, emulandole e diffondendone l’uso.
Senza pretendere a tutti i costi il ritorno degli annunciatori televisivi degli Anni Cinquanta e i primi Anni Sessanta, come i Paladini e i Carrai di felice memoria, che deliziavano i telespettatori con le loro voci baritonali dalle dizioni perfette, ci si accontenterebbe di giornalisti capaci di dare correttamente e chiaramente le notizie. Anche quelle improbabili, giusto per esemplificare, della ròsa fresca e aulentissima, rósa d’invidia per la margherita, e della pésca all’amo della pèsca, frutto originario della Persia (in dialetto pèrsica).
A suo tempo, è parso doveroso invitare direttamente gli interessati e i responsabili a porre rimedio al disservizio. A distanza di molti mesi, archiviato qualche benefico ricambio e preso atto di timidi segnali di miglioramento, è andata sostanzialmente delusa la speranza di veder còlti dai cólti interlocutori i principi di collaborazione costruttiva alla base di quella segnalazione. Certo è che non sono arrivati riscontri, ad onta delle esortazioni a interagire, rivolte sempre più spesso ai telespettatori.
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