La sensazione che si avverte diffusamente in questi giorni è di scoramento: “ce l’avevamo quasi fatta, e adesso siamo daccapo”, si legge, si scrive, si dice, oppure il concetto è espresso con un moto delle spalle, un’increspata di labbra o uno sguardo un po’ sperduto. Come se ci sentissimo truffati, come se qualcuno avesse mai battuto un gong per annunciare ufficialmente: “È finita! Festeggiamo!”, allo stesso modo di quel che si è sempre fatto dopo ogni armistizio, pace o trattato che chiudesse una guerra. In effetti l’illusione di una liberazione ormai prossima, anzi addirittura pressoché raggiunta, soprattutto al culmine dell’estate scorsa, direbbero i tedeschi, era “in der Luft”: nell’aria. In genere non avevamo abbandonato quella minima “attrezzatura da trincea” che ognuno di noi, ormai, si ritrova in casa e che fa parte della normale lista della spesa, guanti monouso, mascherine, disinfettanti (anzi sanificanti, più o meno un neologismo che gode attualmente di uno straordinario fulgore). No, non l’avevamo abbandonata, eravamo e ci sentivamo ligi. Si andava a far la spesa o si entrava in un bar debitamente attrezzati, ma più che per vero timore- mi riferisco essenzialmente al mese di luglio e alla prima metà di agosto, prima che esplodessero l’affaire discoteche e il caso Sardegna- per la sopravvivenza quasi automatica di abitudini stratificate in noi dal lockdown “duro” e dal dopo lockdown, allorché siamo usciti dalle nostra case tipo i pulcini dall’uovo, con visi stupefatti e occhi sgranati, increduli per la riconquistata parvenza di normalità, ansiosi di rituffarci nella vita “vera” eppure nel contempo ancora esitanti e incerti sui nostri passi, come se dovessimo di nuovo imparare a camminare. Forse, qualcuno non aveva abbandonato la casalinga attrezzatura da pandemia per altri motivi, tipo una specie di scaramanzia (chissà se tenere questa roba in casa, senza doverla necessariamente usare, funge da talismano, tante volte non si sa mai). Comunque sia, senza che nessuno avesse avuto il coraggio (tranne le solite voci discordanti, spesso screditate), anzi l’ardire, anzi il fortissimo ottimismo, di proclamare ufficialmente “è finita”, noi lo abbiamo creduto lo stesso. Abbiamo ridato fiato a progetti congelati, l’acquisto di un’auto, il mutuo di casa, il rinnovo del guardaroba, nella prospettiva, nel caso di quest’ultimo, di poterlo indossare e di mostrarlo ad occhi che non fossero solo quelli dei familiari o addirittura semplicemente il nostro specchio, anche perché, scrive Voltaire, “se la natura non ci avesse fatto un po’ frivoli, saremmo molto infelici”. Naturale: è sempre l’ipotesi a noi più favorevole a carezzarci lo spirito, a catturare la nostra attenzione, l’ipotesi che coltiviamo e curiamo sforzandoci di trovare degli addentellati con quel che ci cade sotto i sensi, trascurando i dettagli che non ci piacciono o non ci fanno comodo. Eppure, se le dinamiche non esattamente “negazionistiche”- termine fino all’altro ieri usato pressoché soltanto in relazione a un certo tipo di studiosi di storia- piuttosto “minimizzatrici” , ci portano non tanto a negare, bensì ad ammansire e ad allontanare da noi il pensiero di ciò che più temiamo, attaccandoci ai brandelli di verità o di simil-verità, sono universali (e magari già presenti nella mitica “orda primordiale”), è la nostra epoca, l’epoca del benessere, a veicolare un mostruoso inganno. La realtà che non ci piace, le nostre abitudini rivoluzionate, il fiato costantemente sospeso, la paura dell’oggi e del domani ci stupiscono, ci scandalizzano. Come se a noi, post- moderni e perfino post- tecnologici, fosse garantita sempre e comunque una vita comoda, una vita tranquilla, e, possibilmente, con l’aspettativa di vita stessa sempre crescente, verso l’infinito e oltre, direbbe Buzz Lightyear. Tuttavia, il discorso sarebbe assai più ampio. Quante lamentele si ascoltavano, anche prima della pandemia, da parte di persone per le quali lo standard era – ed è- quello della tv e dei social, i media in cui il successo sembra la norma e non l’eccezione, lo standard della pubblicità in cui tutti sono belli e rilassati, appagati e felici, con corpi fantastici e conti in banca cospicui? Uno psicologo, di recente, mi ha detto: “In generale, le persone si sentono al giorno d’oggi assai più sfortunate di quel che sono. Cent’anni fa un contadino, che faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, aveva la percezione di essere molto fortunato allorché ci riusciva: perché sapeva bene che la vita è piena di difficoltà. Il problema vero è che, nella società del benessere, ogni sciocchezza sembra, per l’appunto, un problema, e che abbiamo volontariamente rimosso il pensiero che la vita è tuttora piena di difficoltà, e sempre lo sarà, per sua stessa essenza”. Nessuno, forse, ci ha insegnato- né lo abbiamo insegnato noi ai nostri figli- che qualcosa di assai poco piacevole può accadere da un momento all’altro, e che partire dall’idea di “doversi godere la vita”, costantemente, non è che utopia. Quanto al lockdown che abbiamo già vissuto, del quale temiamo così lo spettro, è stato davvero così terribile non poter uscire di casa, ma col frigorifero pieno, e la tv , il PC e il cellulare sempre accesi? La pandemia che ci angoscia non è una punizione, non è una truffa, non è un complotto da parte di chissà chi: è qualcosa di naturale che avrebbe potuto accadere, ed è accaduta. L’autopietismo non conduce a niente. Abbiamo avuto- e abbiamo-infinite possibilità rispetto a ogni altra epoca storica. Non conta, tutto sommato, quel che ci succede, bensì il significato che noi gli diamo. Da ogni difficoltà nascono soluzioni, sosteneva Henry Ford.
Dunque corri, uomo, corri.
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