Il 19 maggio 2018, ci lasciava Nicola Iacobacci, il poeta del Molise, che meriterebbe di essere ricordato in modo degno, al di là di questa testimonianza, che ci permettiamo di ripubblicare a due anni dalla scomparsa.

Del poeta, Nicola Iacobacci aveva quello che comunemente si dice il fisico del ruolo. Portava “inserita, per chi ne conosca i versi, nei tratti fisici la sua cifra di poeta”. Ad affermarlo, un amico ed estimatore di antica data, Andrea de Lisio, che invitava il lettore a figurarsi “un volto asciutto, verticale, che prende vita dagli occhi chiari in cui leggi immagini di stupori infantili e tenaci atti di fedeltà alla semplicità del vivere, e aggiungi il colore pallido della maturità annidato tra i capelli”.

Del poeta, Nicola Iacobacci aveva l’orecchio finissimo, di una musicalità assoluta, con la quale ammantare i versi liberi in un’onda sonora dolce e persistente che non poteva non colpire la sensibilità di musicisti come Guido Messore, Antonio Iafigliola e Leo Quartieri, diversi per età, studi, inclinazioni e generi artistici, eppure accomunati dall’ispirazione e dall’obiettivo di trasporre i suoi versi sul pentagramma, per valorizzarli grazie alla collaborazione di strumentisti, cantanti solisti, coro. L’orecchio e la musicalità innata hanno caratterizzato e reso inconfondibile la voce del poeta che, stando al giudizio di Giorgio Bàrberi Squarotti, critico di vaglia, “una volta udita, allora proprio non sembra avere fine, non si smorza più in silenzio e in dimenticanza, rimane come un’esperienza davvero fondamentale”.

Del poeta, Nicola Iacobacci aveva la capacità di vedere con gli occhi del poeta le cose povere e belle del piccolo mondo contadino della nascita e della prima infanzia, che lo ha segnato per sempre. L’abitato di Toro, dove era nato nel novembre del 1935, le sue viuzze fatte a saliscendi, la vallata del Tappino, il tratturo, il fiume, l’erba, le piante, i fiori, i cento e uno animali grandi e piccoli, di terra e volatili, da lui riconosciuti e cantati a uno a uno nei suoi versi, nei drammi in versi, nei romanzi e nei monologhi, ovvero nelle sue opere di poesia in prosa. Alla sua infanzia, raccontava Iacobacci, posero fine la guerra, i soldati tedeschi “coi moschetti sui pastrani”, la paura degli uomini di essere presi e portati nei campi di concentramento. Ma per lui ch’era bambino “la guerra fu solo uno scherzo”. Poi un giorno il padre decise di vendere tutto in paese e traferirsi a Campobasso per dedicarsi al commercio: ottobre 1944. Problematico per il ragazzo, il nuovo impatto con una realtà diversa, con la gente che sembrava strana, diffidente. Gli fu difficile abituarsi “a portare i pantaloni alla zuava, a girare da solo per la città così grande, così inumana”. Vi frequentò il liceo classico. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Napoli, senza aver mai indossato la toga, preferì insegnare Lingua francese nelle scuole medie e coltivare la vocazione di poeta. Per onorarla a tempo pieno, appena quarantenne, scelse la strada del pensionamento super anticipato.

Si diceva del piccolo mondo, del Molise rurale dell’infanzia, in cui la “semplicità del vivere” si innestava su usi, tradizioni e riti millenari che hanno avuto non poca parte nella resa di estrema suggestione della sua opera, anche quando li mise a confronto con gli usi, le mode, i rituali che la modernità ha finito per imporci negli ultimi decenni. Gran parte dell’opera di Iacobacci poteva scivolare nella trappola della dicotomia del Passato e del Presente e quindi del Qui edell’Altrove o, per usare le parole di Costantino Simonelli, poeta a sua volta, “scivolare nella dicotomia del Bene e del Male cosmico, che pervade l’atmosfera di ogni animo genuinamente sensibile”. Nicola Iacobacci ha scansato la trappola. Ha cantato il Molise, non per continuare senza senso a vagheggiare il mitico tempo che fu ma, ma per riconoscerlo come propria terra ed elevarlo a fondale della sua esperienza poetica e, in definitiva, della sua vita. Va condiviso il giudizio espresso una trentina d’anni fa, ma non per questo superato, di Giambattista Faralli e Sebastiano Martelli, amici, prima ancora che corregionali e critici: “Il Molise [di Iacobacci] è quello degli occhi, del presente, dell’esserci dentro; è un paesaggio da leggere in chiave metafisica, perché sia sottratto alla sua contingenza di luogo periferico, minimalista del mondo, e in tal senso tende a diventare segno da decrittare, metafora, allegoria di una condizione esistenziale sofferta da un intellettuale con inquietante sensibilità”.

Di qualche anno più giovane dei più celebrati corregionali, Luigi Incoronato, Giose Rimanelli e Felice Del Vecchio, Nicola Iacobacci non intese emularli nelle loro “fughe” e fin dagli esordi volle redigere il suo testamento letterario:“Non lascerò il Molise / trafitto dagli occhi dolenti di madri. / Questo sole che abbruna gli ulivi / m’inchioda alla terra degli avi / che pascolavano greggi ai tratturi / intrecciando canestri /per gli agnelli appena nati; / il mio Molise /con le donne che cercano fragole ai boschi / e portano scarpe di gomma / nei giorni di pioggia”.

Del poeta, Iacobacci aveva la Musa ispiratrice: la donna della sua vita, la moglie Piera, con la quale ha vissuto la stagione dell’amore, comparabile soltanto con quella mitica dell’infanzia, ma diversamente da quella gelosamente racchiusa nel cuore e affidata, con maggiore parsimonia, ai versi. Solo molti anni dopo, è tornato a quella stagione felice, e vi ha trovato la fonte di ispirazione di una corposa e bellissima raccolta di “poesie d’amore”, La baia delle tortore, 1998.

Del poeta, infine, Iacobacci aveva la ritrosia, nel suo caso eccessiva per quanto non boriosa né tantomeno scontrosa, vista la cordialità dei rapporti che ha saputo intrecciare. Purtroppo, la riservatezza non ha giovato alla divulgazione delle sue opere. Lo ha tenuto lontano dai cenacoli, gli ha impedito di presentare e promuoverele sue opere e, nelle schede biobibliografiche, di far cenno ai premi nazionali e internazionali ottenuti da giurati esigenti. Per esempio, la pubblicazione dell’antologia epica Iperione (Milano 1970), gli valse un invito prestigioso a trasferirsi in Francia per un mese, per progettare e gettare le basi per una moderna traduzione dell’Orlando furioso in francese. Invito declinato e, come questo, anche altri. Diversi premi ed attestati di ogni genere non furono mai ritirati. Qualche rara volta lo furono per interposta persona, come nel caso di una scultura di Romolo Bianchi, ritirata a suo nome dal noto collezionista d’arte Michele Praitano al “Piccolo” di Milano. È assai significativo che Iacobacci si presentasse, per prendere posto in incognito in fondo alla sala dell’Ariston di Campobasso, solo dopo l’inizio del concerto ispirato alle sue poesie, che Leo Quartieri stava tenendo in suo onore, e ne andasse via, insalutato ospite, prima che la manifestazione finisse. Significativo, inoltre, che non accompagnasse una scolaresca di Barletta che, dopo aver adottato, letto e studiato il suo romanzo La tela dei giorni (Napoli 1987) era venuta in visita didattica a Toro, per visionare il paese e in particolare Calata Pozzilli, la strada dove era nato e cresciuto. Né avesse trovato la forza d’animo di invitare (disturbare, secondo lui) un amico o un parente ad accogliere ragazzi e insegnanti al posto suo. Iacobacci non ha mai nascosto questo riserbo, che, torniamo a dirlo, ha impedito la necessaria divulgazione delle opere pubblicate in quasi mezzo secolo di attività costante: una piccola biblioteca di ventotto titoli che vanno dalla prima raccolta poetica del 1961 (M’ha svegliato il sole, Reggio Calabria 1961), alla traduzione in spagnolo a cura di Michele Castelli del romanzo Hàmichel (Caracas 2007).

“Non lascerò il Molise / trafitto dagli occhi dolenti di madri”. È stato buon profeta. Profeta e sacerdote della poesia alla quale, finché ha potuto, ha dedicato ogni giorno della sua vita, assiduo alla scrivania, davanti al foglio bianco da riempire, redivivo Apelle al cavalletto dei versi, mutuandone il motto: “Nulla dies sine linea”. Nessun giorno senza una linea. Né senza l’immancabile passeggiata al tramonto, lungo le strade del quartiere a suggello delle sue giornate, in ogni stagione e con ogni clima. Almeno fino al 2005, quando la sua attività poetica e letteraria è venuta bruscamente a cessare. Ed è sceso il silenzio artistico. I vicini che lo avevano conosciuto aitante, alto e diritto come un fuso, stupivano nel vederlo passare a sera col passo sempre più incerto e la figura sempre più piegata in avanti. I familiari sapevano che la salute del settantenne poeta declinava. Fino a costringerlo in casa, dove nel progredire della malattia, che lo ha relegato in un mondo tutto suo, è stato assistito per oltre un decennio dalle cure ininterrotte, tenere e coraggiose nello stesso tempo di Piera, e dall’affetto delle figlie Mariella e Valeria: la sua famiglia, la famiglia che con la poesia è stato il grande amore della sua vita.

Addolora che la sua scomparsa sia arrivata prima che, insieme a Michele Castelli, molisano di Caracas, proprio in quel torno di tempo nominato ambasciatore del Molise nel Mondo, si sia riusciti a ridargli voce, pubblicando e regalando all’autore in vita, e ai conterranei e agli amanti della poesia e della nostra terra, l’antologia critica delle opere di Nicola Iacobacci, “Il poeta del Molise”, finalmente in corso di stampa.

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