Il 30 aprile 2020, anniversario dei 70 anni della morte prematura di Francesco Jovine, non è passato del tutto ignorato. Almeno in Molise. Sebbene in ordine sparso, a mezzo stampa, cartacea e on line, in Tv o dai più comodi e domestici canali social, più di qualche amico o studioso ha onorato per quanto possibile la ricorrenza. Anche Vincenzo Cotugno, vice presidente della Regione Molise e assessore alla cultura, ha postato un ricordo dello scrittore sul suo profilo Facebook. Dispiace solo che nel novero non si sia inclusa Rai Molise, che pure dispone di teche preziose, alle quali avrebbe potuto attingere per riproporre, per esempio, alcune suggestive immagini dei due sceneggiati, Signora Ava e Le terre del Sacramento, rigorosamente in bianco e nero, mandati in onda con successo, rispettivamente nel 1975 e nel 1970.
Andò molto meglio dieci anni fa, ma obiettivamente l’occasione fu molto più solenne e di ben altro respiro. Nel 2010, in vista della ricorrenza del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia (1861-1961), l’editore Donzelli, tenuto conto che gli eventi narrati nel romanzo si svolsero nell’anno che portò all’Unità d’Italia, ristampò Signora Ava, con prefazione di Goffredo Fofi e postfazione di Francesco D’Episcopo. All’operazione arrise un buon successo di critica. In particolare allo scritto di Fofi, che fece epoca ed è ancora citato assai volentieri e a prescindere. Si veda per esempio il florilegio di riferimenti che, a distanza di un decennio, nell’agosto dello scorso anno hanno salutato la prima assoluta, che si è tenuta in Molise, precisamente nel Castello Monforte a Campobasso, dello spettacolo teatrale “Signora Ava”, tratto dal romanzo di Jovine (adattamento e regia di Andrea Pergolari con Silvia Siravo).
Il perdurante successo della prefazione di Goffredo Fofi si deve in gran parte a un duplice accostamento, che il critico era andato suggerendo già da una quindicina di anni. Con il primo, che è il meno riuscito, cercava di legare Signora Ava a un capolavoro della letteratura mondiale Cent’anni di solitudine. Un accostamento tutto sommato pretestuoso, come riconosce lo stesso Fofi, che così prova a giustificarsi: “Per invogliare qualche amico riluttante a leggere Signora Ava ho detto a volte che era «il nostro Cent’anni di solitudine», ma me ne vergognavo, sapevo di mentire”. E aggiunge: “Citare Garcia Márquez era per me solo un piccolo trucco propagandistico, ma non faceva che spostare su altri miti un bisogno di raffronti troppo generico per essere giusto”. In verità, è sempre Fofi a parlare, “Signora Ava è molto meno fiabesco di quanto la critica non abbia voluto, ed è più concentrato e solido, non sulla scala di cent’anni bensì di un anno soltanto [per l’appunto quello che portò all’Unità d’Italia], non sulla scala di mezzo continente ristretto a un paese emblematico e totale, ma di un solo comune [Guardialfiera] o zona geografica [Basso Molise] ecc.”.
Molto suggestivo, invece, il secondo accostamento che da allora lega Signora Ava al Gattopardo, e in forza del quale il romanzo di Jovine è diventato senz’altro “Il Gattopardo dei poveri”. Non certo perché con tale formula si intenda sminuirne il valore ma, alla lettera, perché poveri, e non aristocratici, sono i protagonisti del romanzo molisano. Racconta Fofi: “Quando cercavo di convincere qualche amico della bellezza e dell’interesse di Signora Ava, veniva anche da sé paragonarlo al Gattopardo (ma pochi, mi accorgo, l’hanno fatto, sia degli esegeti del Gattopardo sia degli studiosi di Signora Ava)”. E spiega: “Anche per la famiglia De Risio [perno delle vicende joviniane] tutto deve cambiare affinché nulla cambi, ma la differenza tra Tomasi e Jovine è che Tomasi è un erede dei Gattopardi, e Jovine dei Pietro Veleno [il servo-contadino, poi brigante, protagonista di Signora Ava], e forse per questo Il Gattopardo è più noto e apprezzato di Signora Ava (che a me, semplicemente, piace molto di più e che credo reggerebbe a un confronto serrato contro il potente rivale), perché II Gattopardo parla di nobili dalla parte dei nobili, e può essere recuperato facilmente anche dai cultori della Mitteleuropa e degli scrittori «grandi borghesi», anzi perfino aristocratici, mentre Signora Ava parla di cafoni ed è scritto dalla parte dei cafoni. Qui anzi è il suo pregio, che oggi dovrebbe essere evidente ai detrattori di un tempo: Jovine proviene dalla cultura contadina che rievoca e descrive, e sa bene, come lo sapevano tra i suoi contemporanei, per esempio, un De Martino o un Carlo Levi, che la distinzione tra natura e cultura e difficile da stabilire, per un contadino, come quella tra storia e fiaba, memoria, mito”.
In questo senso preciso, quindi, e solo in questo senso, può essere giustificato parlare di Signora Ava come Il Gattopardo dei poveri, o anche, se si preferisce, dei cafoni.
Sulla scia di Fofi anche qualche recensore, bontà sua, ha poi confessato di preferire Jovine a Tomasi di Lampedusa, e don Giovannino Di Risio al Principe di Salina. Del resto, qualche altro, a disdoro suo, dopo aver giustamente annotato che “a Guardialfiera il passaggio dal dominio borbonico a quello sabaudo non verrà a incidere nella vita dei contadini del paese, prigionieri del latifondo e quindi condannati a una vita di miseria e stenti quotidiani”, ha sostenuto che Jovine ha fatto proprio “il concetto gattopardesco del «tutto deve cambiare affinché nulla cambi», perché la classe dirigente resta la stessa ma sotto una bandiera diversa”. Non riflettendo sul fatto che Jovine scriveva e pubblicava il suo romanzo almeno un paio di decenni prima della pubblicazione del Gattopardo, con annesso “concetto gattopardesco”. Ricordiamolo: Jovine viene prima di Tomasi di Lampedusa: cronologicamente parlando, senz’altro.
Anche il confronto serrato, evocato da Fofi, in verità c’è stato. E proprio in occasione alla pubblicazione del Gattopardo. E si risolse con la demolizione totale del romanzo siciliano, accusato di essere di “taglio ottocentesco”, di indugiare “nel romanzesco più sciupato, nella meditazione introspettica… e nei dettagli sensuali”; e inoltre di riecheggiare autori italiani e stranieri, e in ultimo e soprattutto di esibire una “assoluta mancanza di umanità”.
Ragion per cui, è la conclusione lapidaria dell’articolo di demolizione: “Al suo fianco, un romanzo di molti anni fa, Signora Ava, appare un capolavoro. O per lo meno un romanzo autentico che niente ha preso da nessuno”.
Per quanto ne sappiamo fu quella la prima volta che i due romanzi furono accostati. In quel caso Il Gattopardo a Signora Ava e non viceversa. E con buona pace del successo che arriderà al Gattopardo (corroborato anche dall’apporto di Luchino Visconti, Burt Lancaster, Delon e la Cardinale), il primato estetico, non solo cronologico, fu riconosciuto al romanzo di Jovine.
Certo a firmare quella stroncatura fu una penna sconosciuta, che incuteva timore e recò scandalo, A. G. Solari, poi svelata in Giose Rimanelli (Il mestiere del furbo, Sugar, Milano 1959). Ma se un sessantennio dopo, confessare, come in diversi hanno scritto, di preferire Signora Ava al Gattopardo non scandalizza più nessuno, allora è lecito riconoscere a Rimanelli anche una capacità critica, non solo incendiaria. E se così è, sarà lecito ripristinare sia l’ordine temporale sia l’ordine estetico compromessi. Non è il romanzo di Jovine a essere “Il gattopardo dei poveri”. Semmai il contrario. È il romanzo di Tomasi di Lampedusa, a essere “la Signora Ava dei ricchi”.
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