Faccia da Sandokan, come appare nelle fotografie del Casellario Politico Centrale, in casco e sahariana, tra un leopardo e una gazzella, contornato da indigeni. Fisico temprato dagli anni trascorsi nelle colonie italiane, Mogadiscio in particolare, dove fu direttore delle Poste. È un personaggio da leggenda, Alberto Sbrocca, di Matrice, con radici anche a Montagano, cui del resto non mostrerà mai riconoscenza. Cultore di D’Annunzio in gioventù, rivoluzionario della Settimana Rossa, poi spedito non si sa da chi in missione di spionaggio oltre il confine triestino alla vigilia della prima guerra mondiale; legionario di Fiume, promotore di un fascio dei partiti d’avanguardia fra operai, combattenti e socialisti miseramente naufragato nel Molise del primo dopoguerra; ultimo capo di quella legione di temerari e ribelli, compreso qualche autentico eroe, che furono gli Arditi del Popolo, militarmente organizzati, capaci di far tremare i fascisti a Roma, Parma, Sarzana, poi fermati e messi in liquidazione dalla intramontabile tendenza a dividersi e frammentarsi che andrà considerata, alla fine, una delle cause principali dell’avvento del fascismo.
Boicottati dai socialisti, perché rischiavano di intralciare la folle idea del “Patto di pacificazione” voluto da Bonomi, presidente del Consiglio. Dai comunisti, perché la resistenza popolare poteva svolgersi solo all’interno dei quadri del partito. Il comunicato dell’esecutivo (14 luglio 1921) non lasciava dubbi: «L’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici di partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito. La preparazione e l’azione militare esigono una disciplina almeno pari a quella politica del Partito Comunista. Non si può obbedire a due distinte discipline».
Comune la formula: «Il partito socialista dichiara di essere estraneo all’organizzazione e all’opera degli Arditi del Popolo». I comunisti parleranno di “formazioni estranee al partito”. Gramsci dichiarerà il suo disaccordo: “dal formarsi di questo nuovo organismo ‒ scriverà su «L’Ordine Nuovo» (19 luglio 1921) ‒ si può dedurre che il popolo italiano si sforza di compiere il primo atto di fede nelle proprie forze dopo lo scoramento e lo sbandamento, di dare la prima prova di vitalità e di energia che preannuncia lo scatto contro la stretta soffocante della reazione”. Della stessa opinione, Lenin e Bucharin; ma in Italia prevalse la tesi di Bordiga. Terracini, che aveva emesso un giudizio molto duro (gli Arditi del Popolo erano una “audace manovra della borghesia”), farà autocritica molti anni dopo.
Una testa nel caos, Sbrocca, piena di contraddizioni e atteggiamenti inspiegabili. Nessuna paura di affrontare i fascisti per le strade, o di attaccare Farinacci o Mussolini sui giornali. Inchini e riverenze al diabolico ras politico molisano Michele Pietravalle e ai pallidi deputati Carusi e Baldassarre.
Ancora più misteriosa la sua militanza nell’USI, l’Unione Socialista Italiana (Sbrocca è membro del Comitato centrale e della Direzione nazionale), in vista delle elezioni molisane del 1919. Formazione creatasi all’indomani della disfatta di Caporetto, in un’atmosfera di generale sbandamento (un “miscuglio”, scrisse Anna Kuliscioff), per tentare di staccarsi dalla tradizione pacifista e umanitaria del socialismo ottocentesco, e dal mito della “brava gente” Una ricerca di “modernità” facile a sfociare in spregiudicatezza, realismo spesso cinico, o a perdersi ‒ tanto più nella provincia “abbandonata e negletta” di Sbrocca ‒ nel piccolo veleggio delle candidature e delle poltrone.
Ma i cattolici del nascente partito popolare molisano scorsero qualcos’altro, il “serpe verde”, l’aura massonica che emanava dal movimento elettorale che si andava formando. E ne chiamarono a rispondere proprio Sbrocca (“l’ultimo degli isolati”), con un disprezzo mitigato solo dalla commiserazione: “Non è il caso di incrudelire contro codesto poveretto che in verità si liquida da sé”. Una scoperta peraltro non difficile, per chi guardasse l’organigramma della sezione USI di Campobasso, realizzata, secondo Sbrocca, tutta da solo, con 200 iscritti reclutati in un baleno. In primo piano, Francesco Saverio Giancarlo, segretario generale dell’Amministrazione provinciale e massone tra i più noti del capoluogo; poi Nicola Verdone, Maestro Venerabile della loggia “Nova Lux” di Campobasso. Cosa aveva da spartire un personaggio da trincea, un proletario, popolare, utopista, “sovversivo del buon tempo antico”, come Sbrocca si definiva, e a caro prezzo, con quelle compagnie?
Sbrocca, intanto, per errori burocratici, viene escluso dalla competizione elettorale. Resta traccia di un suo travolgente comizio al Teatro Margherita (l’attuale Savoia). Sbrocca ricorda la sua natura di “socialista del Popolo”, il ferimento durante la Settimana Rossa, il trasferimento punitivo in Somalia e il suo ritorno, per arruolarsi volontario e andare al fronte, mentre il sindaco di Montagano (ora candidato del partito popolare) si imboscava “a gloria di Dio e della santa fede (applausi vivissimi) e alcune… generose donne di Montagano si concedevano ai prigionieri austriaci, mentre altre facevano la… rivoluzione per avere un parroco giovane e gagliardo (Applausi)”.
Memorabile, dunque, anche per scostumatezza, come spesso succede nei comizi. I posteri lo perdoneranno. Ma Sbrocca presenta anche una cronaca preziosa della campagna elettorale, con tutto il sottobosco di galoppini, provocatori, agitatori prezzolati, che si anima nelle piazze, e le voci, le calunnie bisbigliate e messe in giro, i soldi che passano di mano.
Sbrocca è scrittore febbrile, come invasato. Sui suoi giornali, le bombe a mano e i teschi con il pugnale tra i denti si alternano al racconto minuzioso delle vicende impiegatizie, ambientate anche nelle colonie e nelle “terre liberate”. Postelegrafonici, in particolare. Un ambiente che si scoprirà assai meno pigro di quanto si potrebbe immaginare, visto che nel suo ventre molle ‒ come non manca di rilevare Renzo De Felice ‒ alleverà l’arditismo rosso più violento.
Di Argo Secondari, pluridecorato della prima guerra mondiale, promosso per valore militare da soldato semplice a tenente, e fondatore degli Arditi del Popolo, Sbrocca sarà amico sincero, fidato e leale “numero 2”. E quando l’organizzazione, dopo poche settimane di esistenza, si dividerà (da una parte l’anarchico Secondari, ostinato nel difendere l’autonomia del movimento; dall’altra socialisti, repubblicani e politicanti in genere), Secondari nominerà Sbrocca segretario dell’Associazione Nazionale degli “Arditi del Popolo”.
“Carissimo Sbrocca, ‒ gli scriverà il 20 agosto 1921‒ sono convinto che il movimento di organizzazione verrà da te disciplinato perfettamente. Ti ringrazio di tutta l’opera da te svolta, fino ad oggi, a favore degli «Arditi del Popolo» e confido, più che mai, nella tua valida cooperazione”.
Sbrocca erediterà così tutte le insinuazioni e le accuse già destinate a Secondari. Le falsità, sempre assai squallide, che si sentono in queste situazioni: appropriazione dei soldi delle collette, delle tessere, dei distintivi, delle sottoscrizioni per i carcerati o per i morti; e le minacce sui documenti segreti da tirare fuori. Per gli avversari, Sbrocca è un infiltrato, “sussidiato da qualcuno per disgregare il movimento”.
Nella difesa di Sbrocca si avverte tutta la sua solitudine. Ricorda di essere stato il primo “a difendere e ad esaltare quel meraviglioso movimento spontaneo di ribellione, sorto, contemporaneamente in molte città e borghi d’Italia, per rintuzzare le barbariche violenze fasciste, mentre tutta la stampa pescecanesca e… democratica lo denigrava sconciamente”.
Poi la difesa, da politica, diventa molto personale. L’accusa è di aver pubblicato un giornale, arbitrariamente, come organo ufficiale dell’Associazione.
“Alle insinuazioni dei… vigliacchissimi rettili che tentano di lordarmi con la loro bava velenosa, io ho l’orgoglio di poter rispondere che:
1- Per pubblicare questo mio periodico io non ho chiesto il concorso e l’aiuto di nessuno;
2- Ne ho diffuso migliaia e migliaia di copie, specialmente nella mia provincia, abbandonata e negletta, in America, nelle colonie e fra le organizzazioni proletarie della mente e del braccio;
3- Ritenendo di fare cosa utile, vi ho profuso, oltre che le mie energie intellettuali, anche i risparmi fatti durante la mia permanenza in Africa e al fronte;
4- Vi ho anche impiegato, quasi interamente, lire diecimila avute come miserrimo indennizzo per la perdita di un bagaglio preziosissimo che mi fu silurato nel mio viaggio di ritorno dall’Africa, nel 1917;
5- Vi ho impiegato, inoltre, varie migliaia di lire di arretrati, di promozione, riscossi in questi ultimi anni, e l’importo della cessione del quinto dello stipendio, fatta l’anno scorso; senza contare che per continuarne la pubblicazione, io sottraggo ogni mese, al mio meschino stipendio di un impiegato, L. 300, e, a volte, L. 350 e perfino L. 400”.
L’appello alla povera mamma sua indimenticabile è commovente, ma anche la prova di una personalità fortemente scossa:
“I rettili di questa età di mantenuti e di procaccianti non possono neppure lontanamente immaginare che a tanto possa giungere lo spirito di sacrificio e la devozione a un’idea: ma non sono i rettili che debbano o possano giudicare della mia vita intemerata ed esemplare e della mia opera, sia pure modesta. Poteva comprendermi e giudicarmi la Mamma mia indimenticabile, dal cuore magnanimo e dalla volontà eroica; possono comprendermi le persone della mia famiglia e di pochi amici intimi che conoscono la mia vita di lavoro e di sacrificio senza limiti”.
Per poi concludere:
“Io «sotto l’usbergo del sentirmi puro» ripeto i versi del poeta:
… La bava dei rettili
A spegner non vale
La fiamma immortale
che m’arde nel cor!…”.
Sui giornali di Sbrocca è tutto un turbinare di testate e sottotitoli: “Organo dei Partiti d’Avanguardia e dei Combattenti”, “Giornale dei Partiti d’Avanguardia e dei Combattenti”, “Giornale dei Partiti d’Avanguardia, dei Combattenti e delle Organizzazioni del Lavoro e del Pensiero”, “Concentrazione Unitaria Socialista Nazionale e Internazionale”, “Proletariato della Mente e del Braccio”, “L’Avanguardia Sociale”, “Organo dell’Associazione degli “Arditi del Popolo”.
Le promesse di ferocissimi regolamenti di conti e le minacce di pistolate si affiancano ai ringraziamenti e alle partecipazioni di onorificenze, a margine delle righe affrante dei necrologi, particolarmente lacrimosi e numerosissimi, vissuti come veri momenti di pace. A Sbrocca vengono a mancare uno dopo l’altro una serie incredibile di parenti, tutti meticolosamente registrati nelle loro origini borghesi, nei loro preziosi legami genealogici: Amalia Sbrocca, a soli 27 anni, spentasi serenamente “sotto il cielo materno di Roma”; Maria Nicola Sbrocca, nata Di Blasio, “famiglia molto agiata”; Luigi Sbrocca, “nella sua vecchiaia vegeta e forte”, Giovanni Sbrocca, “zio del nostro direttore”, che, scritto di pugno di Sbrocca, aggiunge non si sa se più macabro al grottesco o viceversa.
Tutto questo, non per fare dell’umorismo nero a buon mercato, ma perché, in fondo, depone dell’anima inguaribilmente borghese di Alberto Sbrocca. E ciò forse costituisce la principale contraddizione che segna la sua attività di politico e di giornalista e anche la sua vita molto sofferta, molto sacrificata, vissuta dalla parte meno comoda e molto pericolosamente, con un epilogo tristissimo.
Non manca il necrologio della gazzella e del leopardo, le povere bestie morte annegate durante il trasporto dalla Somalia, al seguito di Sbrocca che rientrava in Italia, con la nave affondata da un siluro tedesco. “Occhi di cielo, dolce gazzella,/Eri pur buona, eri pur bella!/Nel mare infido tu sei sparita,/ dolce compagna della mia vita”. E “Col leopardo, sì bello e forte,/ T’hanno i tedeschi data la morte”.
Alla fine dell’avventura, Sbrocca si inventa su due piedi un’altra organizzazione, le “Avanguardie del Popolo”, con tanto di Direttorio Nazionale, segreteria, programma, statuto, convocazione di congresso nazionale, tutto raccolto in una sola persona, sé stesso; e da quel punto in avanti sembra che la sua ragione incominci a declinare. Partono appelli verso direttorii provinciali, gruppi locali, soci che non esistono se non nella sua mente.
Nel delirio, qui e là affiorano sfolgoranti squarci di futuro. Sbrocca sembra captare l’involuzione di un capitalismo sempre più finanziario, l’inizio di una fase degenerativa che cerca nelle guerre mondiali i suoi sbocchi perversi, ma l’elaborazione non supera la stanca retorica dei proclami, da vecchio socialista ripiombato nelle predicazioni, nella purezza, nel “buonismo” dei Lazzari e dei Prampolini. Restano i titoloni in testa a trafiletti di poche righe, le frettolose parafrasi o le denunce ‒ oggi si direbbero populiste ‒ dei fornitori militari e degli speculatori, i cosiddetti “pescicani”, con le loro improvvise fortune, i loro maneggi, i loro legami con le nuove forze protagoniste della scena politica. E della sua attività nelle associazioni internazionalistiche si stanca presto: occorre passare ad altro, in un fervore che non trova requie, una specie di demone che non si scrolla di dosso, finché, come vedremo, non sopraggiungerà la sfiducia, lo sconforto, la nausea per le masse avvilite, le “mandre di vigliacchi” che hanno abbandonato il campo e lasciato dilagare il fascismo.
“Sono spettacoli di decomposizione, di rammollimento e di cinismo che possono destare la nausea, ma non la meraviglia in noi – scrive Sbrocca – che conosciamo molto bene la storia letteraria e anche politica di questo nostro paese – di accademici e di cortigiani – che, attraverso i tempi, ha dato così pochi esempi di uomini di carattere. La massa non è stata mai educata alla lotta, alla dignità e al sacrificio: è stata, invece, ingannata, corrotta e tradita”.
E proprio il crescere del pericolo fascista, prima della marcia su Roma, se trova penosamente inerme lo Sbrocca politico, in qualche episodio fa trovare allo Sbrocca giornalista la sua dimensione di scrittore tagliente e coraggioso; addirittura nei momenti più felici una vena di poesia del tutto assente nelle sgangherate prove in versi. L’articolo su Mussolini e soci, “Cavalieri della Morte”, è un soffio di vento gelido:
“Vi è, tanto per citarne qualcuno, l’on. Mussolini che vanta la protezione di vari cugini – veri e posticci – del Re d’Italia e che alla luce del sole e spavaldamente organizza e dirige un corpo armato; vi è l’on. Farinacci che diffonde bandi di vita e di morte; vi è il segretarissimo dei fasci Michele Bianchi che proclama la mobilitazione ed il concentramento delle bande, se non dei… «Cavalieri della Morte», dei «Becchini d’Italia»”.
Tutto ciò, scrive Sbrocca, “è ignominioso e turpe. A noi che non sappiamo rinunciare, in nessuna occasione, a quel senso di correttezza e di onestà che fu vanto della cavalleria medioevale, le gesta di questi bruti, destano raccapriccio e orrore”.
I fascisti “che di notte, bussano alla casa di Clodoveo Bonatti, a Bologna, e lo pugnalano sotto gli occhi della sposa e dei figli esterefatti, sono per noi delle belve umane che dovrebbero essere eliminate con la fucilazione alla schiena”.
Siamo nel 1922, e sono parole che non si perdonano.
Come quelle su Farinacci, “il patriottissimo, ma imboscatissimo Farinacci che, durante la guerra ha fatto quanto gli era umanamente possibile per non sentire neppure il rombo del cannone – è il più grande eroe dei tempi nostri…. mettendo da parte, s’intende, il DUCE, che è l’eroissimo fra gli eroi. Egli ha, per il rosso, l’odio invincibile di tutti gli animali cornuti, e vorrebbe – se gli fosse possibile – sterminare tutti i sovversivi per rendersi il più benemerito fra i patrioti italiani. Napoleone, Pompeo Magno e il Conte di Culagna sono nulla al suo confronto. Egli batte con un piede la terra ed ecco che sorgono a legioni i suoi guerrieri, pronunzia un discorso e trasforma i conigli in eroi”.
Si affacciano tristissimi presagi. Il fratello di Sbrocca (“Rag. Giovanni”) è vittima di un’aggressione fascista ad Arezzo. Poco dopo, Alberto Sbrocca viene trasferito a Grosseto, nelle fauci del fascismo più sanguinario. Non è certamente un caso. Meno di un anno prima, Sbrocca aveva pubblicato un manifesto dedicato dagli squadristi di Grosseto al comm. Paolella, Ispettore Generale della P.S., prova terrificante della tracotanza dei fascisti e del senso di impunità che si era ormai irreversibilmente diffuso in Italia: “Alcuni fascisti sono stati oggi arrestati per ordine del comm. Paolella, tritume sbirresco, presuntuoso, idiota, figlio non degenere di Cagoia. A lui ruttiamo in faccia tutto il nostro disprezzo”.
A Grosseto, Sbrocca viene aggredito da una decina di fascisti e gravemente ferito, ma dei particolari precisi non si hanno notizie. L’ex capo degli Arditi del Popolo viene licenziato dalle Poste, si ritira a Napoli e abbandona il socialismo. Da quel momento sparisce anche dal Casellario Politico Centrale.
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