Ripalimosani 3 febbraio 1799, la popolazione, istigata da Gennaro Palermo, e guidata da due contadini ferocissimi Matteo Trivisonno e Gaetano D’Alessandro e un artigiano Domenico Camposenarcone, insorge contro il regime repubblicano, abbatte l’Albero della Libertà, e per tre giorni si da al saccheggio delle case facoltose, ed alle uccisioni.
Vittime della insurrezione furono i seguenti patrioti: Nicola Marinelli Presidente della Municipalità, l’avvocato Sisto Ferrante, l’avvocato Francesco Trivisonno che aveva innalzato l’Albero della Libertà, e il fratello Nicolangelo, Carlo Maria Ferrante, sua moglie Cecilia Catemario, ammazzata per strada mentre cercava di recarsi a Montagano sua terra natia e il figlio Luigi, Luigi Marinelli, Luca Sabetta e Domenicangelo Tancredi, tutti trucidati tra il 3 e il 5 febbraio 1799.
Alcuni giorni dopo, un distaccamento di truppa francese circondò l’abitato; mentre patrioti e soldati nazionali perlustravano le case alla ricerca dei promotori dell’eccidio e dei complici.
Non tutti, di questi, caddero nelle reti; ma undici vennero arrestati, condotti a Campobasso e il 20 maggio fucilati, e furono: Gennaro Palermo, Matteo Trivisonno, Dionisio Micatrotta, Francesco Trivisonno, Giorgio D’Arcangelo, Ignazio Giannantonio e Tommaso di Cosce.
Montagano 10 febbraio 1799, il prete Gaspare Mancino fa insorgere contro il regime repubblicano la popolazione di Montagano, incitandola al saccheggio delle case giacobine ed al massacro dei patrioti.
I più in vista tra costoro riuscirono a salvarsi con la fuga: quelli che non poterono fuggire perderono miseramente la vita, e furono: Giacomo Petrone, d’anni 53, Presidente della Municipalità; e Vincenzo Petrone d’anni 54 Cassiere dell’Università, entrambi furono trucidati a colpi di schioppo. Le loro case vennero saccheggiate e devastate e gli altri di famiglia si misero in salvo con la fuga.
Qualche tempo dopo, quando le sorti arrisero di nuovo ai francesi fu fatta giustizia di tali eccessi.
Il prete Mancino morì, qualche mese appresso, nel Piemonte, e precisamente in Alessandria, si disse, fucilato. (Giambattista Masciotta – Il Molise dalle origini ai nostri giorni, Vol. II, 1915).
Era accaduto che le notizie degli avvenimenti di Francia avevano rianimato i liberali molisani e del Regno di Napoli soprattutto per le umanitarie idee di uguaglianza sociale e per l’abolizione della feudalità che come una belva affamata divorava tutto tenendo oppressa tutta la popolazione di quelle contrade.
Durante e dopo la rivoluzione francese i repubblicani, contaminati da quelle idee, piantarono diversi Alberi della Libertà quale simbolo appunto della rivoluzione, in Francia in Svizzera ed anche in Italia.
Gli Alberi della Libertà erano piantati nelle piazze dei municipi e delle città in ossequio ad un decreto del 1792 che ne regolava l’uso e l’addobbo: l’Albero della Libertà, che di fatto era un palo, era sormontato da un berretto frigio rosso e adorno di bandiere. Veniva usato per cerimonie civili: celebrazioni di matrimoni, giuramento dei magistrati, falò di diplomi nobiliari e anche festeggiamenti rivoluzionari come la danza della Carmagnola.
A ogni messa a dimora di un Albero della Libertà seguiva un cerimoniale piuttosto unico: c’era l’orazione patriottica con musica e danze alternate a doni in monete e cibarie. Durante la celebrazione dei matrimoni, gli sposi assistiti da due testimoni, cantando la Marsigliese, si giuravano fedeltà pronunciando la formula “albero mio fiorito, tu sei moglie e io marito” e viceversa, girando tre volte intorno all’albero.
A difesa dell’Albero della Libertà, per preservarlo da ogni possibile abbattimento, la guardia civica era chiamata a sostenere un continuo servizio di vigilanza.
Già da qualche tempo la rivoluzione francese stava sconvolgendo tutti i regni di Europa con il propagarsi delle sue ideologie rivoluzionarie. Anche a seguito dell’avanzata nel continente dell’esercito francese di Napoleone Bonaparte.
Tanto è vero che a metà febbraio del 1799 le truppe di Napoleone penetrarono a Roma dove istituirono la Repubblica Romana. Cosi come avvenne nel Regno di Napoli che si trasformò per la pressione francese e della popolazione locale nella Repubblica Partenopea a seguito della fuga in Sicilia del re Ferdinando IV di Borbone.
Il quale però riordinato un esercito di fedelissimi, quasi tutti mercenari, coadiuvati dagli uomini del Cardinale Rufo riconquista il trono il 18 giugno del 1799 rovesciando il 30 settembre successivo anche la Repubblica Romana.
Con la caduta della repubblica napoletana entra in vigore il divieto di fare riferimento all’albero della libertà. Ogni albero è sostituito dalla croce con le truppe del Cardinale Rufo che si accaniscono contro i giacobini durante la fase di restaurazione del potere dei Borboni.
Questo fu possibile perché le masse dei contadini, per la gran parte rimaste devote alla causa borbonica non avevano mai guardato con simpatia agli ideali della rivoluzione francese.
Dopo anni di stenti e angherie feudali le moltitudini non percepirono gli ideali propugnati dai giacobini che non riuscirono a soddisfare le esigenze reali del popolo ancora in ristrettezze e fortemente affamato.
Per questo fu facile per il Cardinale Ruffo riuscire a mobilitare migliaia di contadini che inquadrati in bande sanfediste si scatenarono contro le persone e le cose della Repubblica Partenopea.
Nella piazza di Ripalimosani, si diceva, il 3 febbraio 1799 un gruppo di contadini armati di scure e guidati, tra gli altri, da Domenicangelo Camposarcuno, detto “Coccitto”, vestito di sarica di panno color blu, camiciola e calzoni anche blu di velluto, fascia di lana verde intorno, calzette di lana color violaceo e scarpe bianche appuntate, in un attimo abbatterono l’Albero della Libertà innalzato dai repubblicani.
Dopo le stragi di Ripalimosani e Montagano, terre dove per prime erano stati innalzati gli Alberi della Libertà, le truppe repubblicane si portarono da Campobasso prima a Ripalimosani e poi nell’altra municipalità, circondarono i rispettivi abitati procedendo ad arresti e fucilazioni.
La reazione dei repubblicani fu altrettanto cruenta.
Le teste degli sciagurati vennero esposte alle mura della città, in gabbie, e le loro spoglie, sepolte in comune, in una fossa nelle vicinanze della cappella di San Giovanniello.
Fra questi non vi erano il Camposarcuno e il D’Alessandro, i quali, sfuggiti alla cattura, si aggregarono al terribile brigante Giovanni Carlozzi di Montagano, detto “Furia”, che terrorizzava i paesi circostanti.
Due anni dopo, a fine ottobre i due ripesi sfuggiti alla cattura caddero in una imboscata.
“Coccitto” fu ucciso e il D’Alessandro rimasto ferito fu catturato.
Il corpo del Camposarcuno venne esposto dinanzi alla chiesa di San Michele dopo che la testa era stata staccata dal corpo ed esposta in una gabbia appesa all’angolo del Palazzo.
Prima di essere catturati e uccisi sia il Camposarcuno che il Carlozzi si aggregarono come sottocapi alla banda di tale Zarrella di S.Elia a Pianisi, una grossa banda composta da circa 800 uomini che imperversò per diversi mesi in quei territori terrorizzando i cittadini che non potevano più uscire di casa.
Fino a quando la banda non decise di assaltare la vicina terra di Castellino dove mise a sacco tutto il municipio ad eccezione della casa dei Signori De Lisio. Mentre la circondavano infatti il parroco D. Cassiano De Lisio ottantenne, ma ancora forte e coraggioso, avuto sotto tiro il capo Zarrella, per una saettiera, lo freddò con due ben aggiustati colpi di fucile.
Morto costui, la banda colta da spavento si sciolse dandosi a precipitosa fuga. I componenti disperdendosi alla spicciolata, nel tentativo di tornare ai rispettivi paesi, caddero facilmente nelle mani dei francesi e dei patrioti.
Fonti bibliografiche
Il Molise dalle origini ai nostri giorni di Giambattista Masciotta Vol. II stampato a Napoli nel 1915;
L’anno 1799 nella Provincia di Campobasso di Alfonso Perrella stampato a Caserta nel 1900;
La Repubblica napoletana del 1799 nel territorio atellano di Nello Ronga 1999
siti consultati: Nuovo Monitore Napoletano; Ripalimosani.it; Ripalimosani-brigantaggio.net
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