Dati i tempi, non c’è bisogno di spiegare perché la mente sia corsa al quadro, una pala d’altare per essere precisi, che testimonia di un’epidemia tragicamente famosa: la peste del regno di Napoli nel 1656. Nella affollatissima e fervente capitale che sfiorava i 450 mila abitanti, il contagio divampò con tanta virulenza da provocare tra le 240 mila e le 270 mila vittime. Nel resto del regno se ne contarono almeno altrettante. Numeri spaventosi, tanto per renderci conto di cosa stiamo parlando. Tanto più spaventosi se rapportati a una popolazione che complessivamente arrivava a malapena a due milioni e mezzo di abitanti. Più di un morto di peste ogni due napoletani, un morto ogni cinque regnicoli. E questo nello spazio di appena qualche mese.

Ma andiamo con ordine. Il quadro in questione è conservato a Toro, nella chiesa di Santa Maria di Loreto, che con l’annesso convento costituisce uno dei poli artistici, religiosi e storici di interesse della regione, pur rimanendo non particolarmente nota. Fondata dalla popolazione nel 1592, la struttura fu donata ai frati minori francescani che da allora vi stazionano stabilmente, eccezion fatta per la parentesi di mezzo secolo, dal 1866 al 1916, originata dalla soppressione degli ordini monastici.

La sua stagione più florida l’ha vissuta nel corso del Settecento, grazie alla predilezione e alla munificenza del cardinale Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento, poi papa Benedetto XIII, che nelle vesti di signore spirituale e feudale del luogo ebbe a cuore di restaurarla e abbellirla. Dell’illustre prelato, a tutt’oggi restano tracce evidenti, tra le quali, un ritratto del cardinale da giovane; le lapidi di consacrazione della chiesa e degli altari restaurati, ai lati dei quali sono impressi gli stucchi con l’impresa papale; la tela della Madonna del Rosario, con tanto di stemma cardinalizio, firmata e datata nel 1721 da Nicola Boraglia; le diciannove lunette del chiostro affrescato nel 1726 proprio in onore dell’Orsini papa, atteso in paese per la visita pastorale prevista per l’anno successivo; e la imponente tela della Madonna di Loreto che il pontefice donò alla comunità di Toro nel 1728.

Al di là dei reperti orsiniani, il convento di Toro offre altri motivi di interesse. Tra cui alcune opere d’arte ispirate a grandi calamità della storia napoletana e molisana. A iniziare dalla lunetta del chiostro dedicata a San Giacomo della Marca, francescano compatrono di Napoli, nell’atto di salvare la città dalla più rovinosa eruzione del Vesuvio del secondo millennio, l’eruzione del dicembre 1631 che, viceversa, distrusse Portici, Resina, Torre del Greco e Torre Annunziata, danneggiò gravemente Ottaviano e la vicina Somma Vesuviana, provocando quattromila vittime, quarantaquattromila senza tetto e la strage di circa seimila bovini.

In chiesa, accanto alla tela ispirata alla peste, una seconda pala d’altare, realizzata da Ciriaco Brunetti, è chiaramente ispirata alla terribile carestia del 1764 che infierì nel Molise e nel Meridione d’Italia. In alto, la Madonna della Misericordia intercede ai piedi di Cristo adirato, con la spada sguainata, ma trattenuto da un angelo. In basso, San Giovanni Battista e Santa Lucia e, sullo sfondo, una città turrita, alle cui porte sono raffigurate scene di monatti che trasportano spoglie di uomini e di animali.

Infine, è tutto il convento, dove trovarono riparo i superstiti atterriti, ad evocare l’immane terremoto del 26 luglio 1805 che abbatté tutto il paese, eccezion fatta per lo stesso convento e qualche isolata abitazione privata, provocandovi circa trecento morti. Si badi bene a questi altri numeri: oltre cinquemila morti nell’intero Molise, di cui trecento a Toro, e questi non astrattamente calcolati ma identificati, bambini, adulti e anziani, e ricordati uno per uno nei registri parrocchiali con il nome e il cognome, il nome dei genitori, del marito nel caso di donne sposate o vedove, e l’età.

Ma torniamo alla pala d’altare ispirata alla peste del 1656. Sotto un cielo di nuvole, sulle quali posano due terzetti di putti a far da corona allo Spirito Santo in effige di colomba, è raffigurato San Nicola di Bari con ai piedi la tinozza dei bambini risuscitati dopo essere stati ammazzati dall’oste che intendeva servirli come carne salata ai clienti. San Nicola compare in primo piano e al centro di uno schieramento a cuneo, come se in tal modo l’artista avesse inteso celebrarne il primato della popolarità e della forza taumaturgica per eccellenza. Ai suoi lati, mezzo passo indietro, i Santi Cosma e Damiano, e alle loro spalle, agli estremi, San Nicasio e San Rocco.

Tutti e cinque i santi sono in stretta connessione con il morbo. San Nicola lasciò ai poveri e agli emarginati l’ingente patrimonio di famiglia, dopo aver perso prematuramente entrambi i genitori, a causa di una pestilenza. Di San Cosma e San Damiano, santi medici non occorre aggiungere altro, né di San Rocco protettore contro la peste.

Va detto, invece, che San Nicasio, il cui nome poco conosciuto è stato annotato ai piedi della figura che lo ritrae in veste di crociato, è da identificare in San Nicasio Camuto, o Nicasio de Burgio, un siciliano di origine araba, che visse nel dodicesimo secolo e fu cavaliere dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, l’odierno “Ordine di Malta”. Insieme a un fratello, Nicasio si trasferì in Terrasanta per dedicarsi al servizio di assistenza e protezione degli ammalati e dei pellegrini nell’ospedale dell’ordine e partecipare alle operazioni militari. Fatto prigioniero, durante la battaglia di Hattin, dove tutti i cavalieri ospedalieri vennero trucidati, fu decapitato alla presenza del sultano, essendosi rifiutato di rinnegare la propria fede. Venerato come martire fin dalla sua morte, viene invocato a protezione dalle malattie contagiose e dalle malattie delle ghiandole linfatiche e della gola. Il suo culto è particolarmente diffuso a Caccamo in Sicilia.

Lecito, quindi, ipotizzare che la tela di Toro sia stata realizzata a ridosso della peste in obbedienza all’intento votivo di ottenere la grazia e scampare al contagio per intercessione dei cinque santi o in segno di gratitudine per la grazia ottenuta.

Ma a guardarla con gli occhi di oggi, essa può essere vista anche come un emblema: come un bell’omaggio artistico, un tributo di riconoscimento e di ringraziamento per l’attività generosa e infaticabile dei medici e dei ricercatori (Santi Cosma e Damiano), degli infermieri (San Nicasio), e dei volontari tutti (San Rocco), ai quali va naturalmente aggiunto il contributo fondamentale dei farmacisti (San Nicola è il loro protettore). Schierati nella bella tela i protettori celesti dei nuovi eroi, di quanti si stanno impegnando giorno e notte in Italia e in gran parte del mondo per compiere veri e propri miracoli: curare i contagiati per rallentare e fiaccare, se non debellare del tutto, l’epidemia nata in Cina ma diffusa ormai ovunque.
(Continua).

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