Quello con Matilde Serao, La Signora, così come il popolo di Napoli che ella amava e che l’aveva amata la definiva, è stato un incontro illuminante.
Non sto a raccontarvi quanto bene ritengo sia stata redatta l’opera (una biografia impreziosita dalla narrazione di episodi che inducono anche ad analisi del costume e della mentalità della società mondana in cui s’è mossa la vicenda della protagonista, una biografia che si apprezza dunque per estrema piacevolezza e versatilità di registro stilistico nel solco della pluralità di competenze che Nadia Verdile esprime) e dello spessore della ricerca documentaristica sottesa alla stesura dell’opera stessa, che potrebbe anche ascriversi nel genere della monografia alla stregua della migliore tradizione storiografica.
Senza scendere in dettaglio, Matilde Caterina Serao, metà greca e metà partenopea, nata a Patrasso il 7 marzo 1856 da Paolina Borrely Scanary, nobile decaduta, e da Francesco Saverio Serao, giovane avvocato con la passione per il giornalismo, sembra esser nata con il fuoco della scrittura nelle vene.
Non citiamo – ritroverete nell’opera nomi e anno di fondazione e durata – quotidiani e settimanali fondati dalla coppia Eduardo Scarfoglio-Serao, prima, e dalla Serao, poi;
non citiamo i romanzi e i racconti personali (quasi sempre a sintesi delle sue personali vicende affettive) e le inchieste pubblicati contemporaneamente alla sua incessante attività di giornalista e opinionista sovente sotto plurimi pseudonimi, nonostante il suo ruolo di madre (“figli, fogli, inchiostro” – cinque suoi figli, quattro maschi avuti dal matrimonio con Eduardo Scarfoglio; una, Eleonora, nata dalla relazione con Peppino Natale, dopo la separazione con lo Scarfoglio, e un’ultima figlia, Paolina, nata dalla relazione di Scarfoglio con Gabrielle, la giovane donna che si suiciderà sulla porta della loro casa dopo aver affidato alla cameriera che aveva aperto l’uscio la neonata frutto della loro relazione).
Insomma. Una vita intensissima, cominciata e finita scrivendo il 25 luglio del 1927.
“Con lei – scrive Nadia Verdile – moriva un’epoca di coraggio e passione. Con lei moriva l’ultima espressione di Napoli capitale.”
C’è la Napoli magmatica e borbonica in questa biografia, c’è il suo “ventre”, in ogni sua pienezza e contraddizione e necessità, per parafrasare il suo più conosciuto romanzo “Il ventre di Napoli”, che la ascrivono nel Verismo regionalistico di denuncia;
ci sono il suo viscerale amore per la scrittura e la passione innata per il giornalismo, quello legato alla cronaca ma ancor più alla cultura e alla satira e alla riflessione sulla politica, l’economia, il costume;
c’è la sua infanzia greca e c’è la sua adolescenza a Napoli;
ci sono le sue scelte, sempre e solo mai conformate, ma volte al rispetto di sé e della propria intelligenza, quella di una donna non bella ma decisamente interessante in tutte le sue vesti, moderna in ogni sua determinazione, misurata come pochi e lungimirante come altrettanto pochi. Un Uomo, verrebbe quasi da dire, libera di scegliere e di determinarsi in ogni sua volontà ed espressione.
Ho accolto con estremo piacere da questa biografia contenuti legati anche alle cronache letterarie e politiche del tempo, che non conoscevo: l’Autrice ha infatti intersecato vicende storiche, viste e vissute dalla prospettiva dei protagonisti, che difficilmente si accolgono dai manuali, come ad esempio risvolti delle proteste popolari del 1898 o analisi delle politiche migratorie giolittiane o della Prima guerra mondiale o dell’antifascismo di Matilde, che mai si piegò alle lusinghe e alle intimidazioni del Fascismo (persino Mussolini le scrive, chiedendole di “essere un poco mussoliniana” su Il Giorno, il quotidiano nato dalle ceneri del suo matrimonio con Scarfoglio), antifascismo che di certo le pregiudicò l’assegnazione del Nobel per la Letteratura, andato nel 1926, un anno prima della morte di Matilde, a Grazia Deledda.
Ho appreso dei suoi rapporti amicali/non amicali (di lei lo stesso marito scapestrato dice sia una “sabotatrice”) e di collaborazioni giornalistiche con Gabriele D’Annunzio, che ella tuttavia ha modo di sprezzare come “uomo di grande talento, ma di second’ordine: primo nel second’ordine” ed il riferimento era all’accusa di plagio mossa a D’Annunzio rispetto ai francesi Flaubert e Baudelaire;
- sempre D’Annunzio è presente nel racconto del suo duello con Scarfoglio, finito con ferimento alla testa del Vate e perdita dei capelli, o nella descrizione della principesca dimora in cui i coniugi Scarfoglio-Serao vanno ad abitare a Roma, dopo essersi sposati, dando così inizio ad un sodalizio non solo affettivo – sodalizio ben presto tradito dall’inquieto Edoardo – ma soprattutto di lavoro, che porterà i due a fondare a Napoli IL MATTINO e poi Matilde, dalla SETTIMANA, una delle sue personali creature, il già citato IL GIORNO;
- ancora D’Annunzio ricorrerà nel rapporto profondamente amicale di Matilde con Eleonora Duse, l’attrice di cinema muto celebrata in tutto il mondo e legata da un tormentato amore con il Vate, Eleonora che viene spesso protetta da Matilde, che conosce bene le ferite del tradimento e vuole preservare l’amica. Sarà Ella stessa ad accogliere sul porto di Napoli il feretro dell’amica, morta dopo breve malattia in America, e ad imporre – con la sua testimonianza autorevole – funerale e degna sepoltura di lei nel cimitero di Sant’Anna ad Asolo, dove la Duse aveva una casa.
- E Matilde, vulcano costantemente in eruzione, come il Vesuvio, che si sveglierà nel 1906 con morte e devastazione, scriverà di satira sotto pseudonimo, ma scriverà anche sceneggiature per il cinema, tratte dai propri romanzi, e si avvierà persino lungo la via della reclame, della pubblicità dei prodotti (quello del dentifricio Odol o della crema Venus), così come in quegli anni farà il D’Annunzio, che conierà termini quali La Rinascente, Aurum, Parrozzo, Saiwa.
Una Donna davvero come poche, che tutto s’è guadagnato con tenacia e volontà; una donna dalla risata travolgente, malata tuttavia di “disistima” di sé, ma forte della capacità di porsi dalla parte delle categorie più deboli e di farsene accorata e spesso indignata interprete.
Fra tali categorie, le donne.
Questo filone è un po’ il filo conduttore della narrazione, il punto di vista privilegiato di una scelta prospettica.
Accogliamo così la figura della madre Paolina, greca e fragile punto di riferimento per Matilde, un maschiaccio nell’indole che mai ha voluto sforzarsi di essere diversa (“disordinata, poco avvezza alla cura del corpo, puntò fin da subito sulla sua più grande bellezza: l’intelligenza. Ironia, curiosità, uso disinvolto ed appassionato delle parole le sue qualità”); quella della suocera che ne avversa il matrimonio; quella delle sue poche amiche e sodali collaboratrici in un universo quasi del tutto maschile; quella dell’amica Eleonora di cui si fa paladina o anche della rivale Gabrielle, della cui figlia si prenderà cura come fosse sua, oltre alle tantissime tipologie di donne che ci palesa per esempio all’interno del Casino di Montecarlo o delle figure di aristocratiche di cui ironicamente scrive: “Queste damine eleganti non sanno che io le conosco da cima a fondo, che le possiedo nella mia mente, che le metterò nelle mie opere, esse non hanno coscienza del mio valore, della mia potenza. Mi trovano semplicemente charmant: io rido dentro di me.”
Scrive ad ogni modo Nadia Verdile: “Tante donne nella sua vita, scrisse di donne, per le donne e da donna eppure non fu, ne mai volle essere, femminista. Anzi, avversò idee e protagoniste di questo movimento né mai volle sostenere le battaglie per il voto, per l’impegno politico e per il divorzio. Che ossimoro, Matilde, paladina degli ultimi, crinista lucida e appassionata, penna d’acciaio, pensiero di lava, nemica dell’emancipazionismo.”
E poi “moderata, monarchica borghese a tratti reazionaria eppure tanto dentro le storie, le vite, gli amori degli universi umani più poveri, abbandonati, sfruttati, dei mondi femminili, dove lo sfruttamento era la tradizione”.
Pagine drammatiche e belle ad un tempo, tante di quelle sfogliate: mi riferisco in particolare a quelle in cui Nadia Verdile ci parla del processo di alfabetizzazione degli italiani e delle italiane susseguito all’Unità d’Italia. Perché le donne potessero insegnare, era infatti necessario che il Sindaco (la scolarizzazione era al tempo competenza dei Comuni) rilasciasse un attestato di moralità per esercitare tale professione fuori dalle mura domestiche.
Scrive a riguardo l’Autrice: “Lunga fu la discussione sulla capacità femminile di insegnare ai maschi, soprattutto nel corso elementare superiore, poi però, gli italiani, brava gente, decisero che utilizzarle era un affare, la loro paga era un terzo in meno di quella dei maestri e nelle scuole rurali ancor meno. Pochi soldi, più controllo e stessi risultati.”
Pagine tragiche quelle che Matilde riporta sul suicidio della giovane maestra Italia Donati, non sopravvissuta a pesanti calunnie, e sull’assassinio per mano del compagno di Evelina Cattermoli, in arte Contessa Lara, con cui Matilde aveva condiviso sentimenti amicali e collaborazioni giornalistiche.
Nell’opera si parla anche di emigrazione, nella lucida analisi del processo migratorio, incoraggiato dalle politiche giolittiane, che vede ancora le donne l’anello più debole di questa già debole catena, e della guerra, la Grande guerra che chiama anche i suoi figli a combattere, guerra rispetto a cui anche la sua voce sembra non avere parole da esprimere: “Come chiudere le finestre dell’anima al rombo terribile per ascoltare l’antica voce interiore, che ci parlava senza labbra? Esiste la guerra, ma è una realtà senza parole, ma è una tragedia senza poeta.”
Tant’altro vi sarebbe davvero da esprimere, proprio a partire dalle analisi fortemente realistiche della Napoli a lei contemporanea, che si potrebbero sintetizzare nelle parole di Matilde “ecco, io (Napoli) ho bisogno di risorgere”, in una lunga riflessione presente nel volume, che appare anche in queste ore di grandissima attualità.
Ringrazio dunque Nadia Verdile per avermi fatto conoscere più dal profondo colei che sa “come tante donne sanno, che come son composte le leggi, nella società moderna, non v’è felicità possibile per la donna, in qualunque posizione si trovi: né nel matrimonio, né nell’amore libero, né nell’amore illegale.” E Matilde lo scriveva già nel 1901.
Cosa sia in fondo cambiato, più di qualche volta io oggi mi chiedo.
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