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Una vita multitasking ci rende più intelligenti o solo più nevrotici? (di Simonetta Tassinari)

Si può dire che le donne, soprattutto, siano da sempre specialiste nel multitasking, ovvero la capacità di fare contemporaneamente più cose. Le contadine di un tempo allattavano il neonato e raccoglievano i pomodori, tenevano il bambino in braccio e una fascina di sterpi sulla schiena, e magari nel frattempo cadenzavano il passo per mantenere la “tina” al suo posto sulla testa. Gli antropologi suggeriscono che questa maggiore capacità di impegno complessivo- mentale e fisico- si sia sviluppata nel sesso femminile a causa del suo ruolo storico di “cura” della prole, in aggiunta a tutte le altre incombenze della vita quotidiana. Tuttavia queste proto-eroine del multitasking ne avrebbero fatto volentieri a meno se ci fosse stato chi si fosse occupato dei figli, o del resto, in loro vece. L’attuale epidemia di multitasking (anche adesso la donna è in prima fila, ma in buona compagnia) non è, viceversa, dovuta alla necessità, bensì alla subdola convinzione, assorbita dalla vita di relazione e da modelli ai quali è quasi impossibile non conformarsi, che chi fa più cose (e in un tempo ridotto) sia superiore a chi ne fa di meno. Il digitale ci ha dato l’erronea sicurezza che lo si possa fare in tranquillità, perfino con scioltezza: perché il vero multitasking non consiste nel correre ascoltando la musica, o nel sudare scendendo e salendo dallo step mentre ripassiamo il tedesco, né nel cantare sotto la doccia o masticare una gomma guardando un film, bensì nella pretesa di essere perennemente collegati e di seguire vari filoni grazie agli infiniti computer di cui ormai disponiamo, il PC, il tablet, il cellulare, sempre più piccoli, sempre più portabili, sempre più smart e accattivanti, con notifiche insistenti e talvolta quasi odiose che pochi, però, hanno il cuore di disattivare, perché sembrerebbe di perdere i contatti col mondo e di venir richiusi a forza in un convento stile “Il nome della rosa”. Il vero multiskating passa dall’account di posta elettronica a uno dei tanti gruppi whattsapp, dalle ultime notizie alla sua pagina facebook, e tutto ciò mentre parla al telefono, studia o legge, scrive una relazione e ha il tacchino in forno, e magari twitta tra una attività e l’altra. Qualche psicologo entra nel vivo della questione svelando che il multitasking (dove il “multi” ci lusinga, e ci dà quasi una patente da superman o superwoman) in realtà è switch- tasking, cioè uno spostarsi velocemente dall’una all’altra attività, perdendo qualcosa durante ogni spostamento in termini di attenzione, concentrazione, profondità, lucidità.

E qui sta il punto.

Ci hanno sempre raccontato che il nostro cervello possiede potenzialità che non adoperiamo abbastanza, e che anzi facciamo languire; senonché non è certo diventando dei moderni giocolieri il giusto modo di “risvegliarlo”, malgrado l’esultanza, più o meno nascosta, che proviamo allorché silenziosamente ci diciamo “ma quanto sono bravo”, “di che cosa sono capace”. Quando scriviamo una mail e simultaneamente conversiamo al cellulare diamo l’impressione all’ interlocutore di essere svagati e poco presenti- cosa peraltro vera- suscitandogli più di una volta l’interrogativo “Ma stai bene?”. E non va meglio “dalla parte della mail”. Risultiamo frettolosi, stringati, imprecisi, poco corretti, perfino, proprio perché svagati e poco presenti. “Chi è dappertutto”, scrive Seneca, “non è da nessuna parte”; e se già l’evangelico “Non si possono servire due padroni” ci mette in guardia, i risultati di padroni “plurimi” sono talvolta comici, talvolta addirittura disastrosi. Mi è capitato di rispondere a mia madre, telefonicamente, “Sono contenta che ti siano piaciute le sardine a pranzo”, mentre lei mi aveva parlato di lasagne. Senonché le “sardine” della cronaca, che stavo compulsando per integrare doveri filiali e obbligo di informazione, hanno preso il posto del ragù e della besciamella; e anche mia madre mi ha domandato, “Ma stai bene?”.

Se non è alienazione, che cos’è? Più che il coefficiente di attenzione, tanto vale calcolare il coefficiente di disattenzione, perché non è mentalmente possibile, sebbene digitalmente realizzabile, essere qui ed essere là, con gli amici del paese e con i colleghi del Dipartimento, i fratelli e i familiari, i compagni del corso di yoga in palestra e quello della scuola di ballo. È un’organizzazione del tempo falsamente razionale, dai benefici del tutto illusori: quel che è recepito rapidamente è spesso destinato a scomparire con altrettanta velocità. Tutto quello che è ovviamente più “lento”, dalla lettura tradizionale all’ascolto delle persone, ormai ci infastidisce; vogliamo un feedback immediato, oppure diamo segni di insofferenza. La massimizzazione, l’ottimizzazione, sono i nostri ideali; ci sediamo a una immaginaria catena di montaggio, ci stiamo trasformando in Hommes- machine , applichiamo alla nostra vita un criterio da PIL, cerchiamo di sfruttare la nostra energia più “scientificamente” possibile. Per di più, lo stile multitasking rischia di espandersi a dismisura anche sul nostro comportamento in generale: che è diventato leggero, effimero, senza basi e superficiale, e opera scelte e decisioni altrettanto superficiali, come se potessimo modificarle come modifichiamo un post; e intanto sopprimiamo, perché più impegnativa, la parte più profonda di noi.

Dimenticando la freschezza delle emozioni di un solo istante.

Un solo istante in cui si fa una sola cosa, o non si fa niente.